lunedì 3 marzo 2008

Palla di Neve All'inferno

Il Pelouche, si sa, è un girone dantesco. L’inferno in terra. Un posto dove la temperatura sale a trentasei gradi anche in pieno gennaio, ed è necessario accendere l’aria condizionata come d’estate. E’ l’ombelico sudato del mondo, forse il centro stesso della terra.


L’età media della clientela è più spostata verso gli anta che gli enta. Gli enti ci entrano solo in veste di Ente pubblico, per controllare inezie come, l’igiene la pulizia e lo stato di conservazione di Alan il proprietario. Un uomo che aveva attraversato indenne gli anni settanta, ottanta e novanta cantando sempre le solite tre canzoni, di cui due solo da interprete.

Alan incarnava il tipico maschio alfa del gruppo, un'etichetta utilizzata spesso nello studio degli animali feroci, tipo i leoni, tigri, pappagalli; e lui, con quella criniera che si ostinava a tenere lunga, sembrava ormai un vecchio leone spennacchiato. Anche il comportamento non lo tradiva, infatti si limitava ad oziare da un divanetto all’altro del suo locale sorseggiando qualsiasi cosa che avesse una gradazione alcolica superiore al quaranta percento o almeno un elevato numero di ottani.

A procurare il cibo ci pensava Hilary, che nonostante il nome esotico non era né giovane né bella né tantomeno straniera. Le sue origini affondavano nel profondo sud Italia, in qualche frazione impronunciabile in provincia di Palermo. A lei l’ingrato compito di emettere scontrini (ne avrebbe fatto volentieri a meno) e di controllare l’incasso della serata. L’acca e la “iupsilon” come la chiamava lei, se le era aggiunte ai tempi in cui faceva la groupie al seguito di gruppi come “I Nomadi” e “I Corvi”.

Fù proprio durante uno di quei concerti che cadde, cotta stecchita di: “un giovane e grintoso supporter dalla voce nera e dal cuore bianco”, così almeno lo definiva lei. In trent’anni di romantica unione non era cambiato nulla. Lei lavorava e lui cantava (e beveva). Ma Hilary non era l’unica a sbavare ancora dietro a questo monumento della musica italiana. Alan era il vessillo di una generazione di donne alle quali ancora ribolliva il sangue non appena lui prendeva in mano il microfono. Sopratutto una fan era rimasta fedele negli anni e non si era persa neanche un venerdì da quando Alan era ospite fisso nel suo stesso locale.

 Occhi lucidi e tremori si diffondevano a macchia d’olio alle prime note di... Ma torniamo a lei, Letizia detta Letty, altra grande amante delle iupsilon, ultracinquantenne partenopea D.O.C. lavorava, imbucata da vent’anni, alla direzione di un oscuro ufficio comunale sperduto nei dedali di un palazzone del centro. Uno di quei posti che, se ci entri da giovane, sei salvo fino alla pensione anche perchè nessuno sarebbe in grado di rintracciarti prima di trentacinque anni. Letty amava il bianco, sembrava la fiera del bianco della Standa da tanto ne usava, aderente come una seconda pelle, su di un corpo botticelliano, nel senso della botte.

Usava sopratutto una particolare variante di bianco per la biancheria intima, limitata per altro ad un semplice tanga brasiliano. Questo bianco aveva la caratteristica di reagire alle luci ultraviolette di cui il Pelouche era disseminato, trasformando quel minuscolo triangolino di cotone in un insegna al neon che triangolava prepotentemente la sua, chiamiamola femminilità. Nell’iniseme sembrava di assistere ad una delle peggiori puntate di C.S.I. Las Vegas. Non è difficile capire che questa presenza costante disturbasse non poco la Matrona del Pelouche, la quale le aveva affibbiato l’eloquente soprannome di PALLA DI NEVE. Tutto sommato era stata ancora una signora.

Anche quel venerdì, puntuale come una sciagura, Palla di neve alla 23:30 spaccate fece la sua comparsa: “Uèèèè Ilaria, come va, ti trovobbbbene” buffettino sulla guancia. “bene, bene, anche tu sempre in forma eh, poi il bianco ti dona così tanto”, “Chemmortorio, ma Alan non ci stà?” “ehm, ehm, arriva, arriva, è andato a schiarirsi la gola qui vicino, ma, accomodati, cosa ti servo?” “Vodkasour, tenghiù” e si andò a sedere sul suo trespolo preferito. Hilary andò sul retro a recuperare del ghiaccio, “Dio come odio quella strega, questa sera sento che andrà a finire male.” Dani, la cameriera storica del locale, la guardava divertita pulendo i bicchieri.

Intanto Alan aveva fatto la sua comparsa. Si era tenuto addosso il Chiodo con cui andava in giro dal '78, come facesse a resistere con quel caldo nessuno lo ha mai capito. Era appena partito il giro di basso di “Unchain my heart” di Joe Cocker e palla di neve era già in visibilio, si sbracciava dalla balconata mostrando generose porzioni del suo decoltè da una parte e porzioni standard del suo generoso culone dall’altra. All’urlo di “Allllann sei tutto maschio”. Poi dando di gomito all’amica che aveva accanto: “chista l’ha scritta per me”
“Veramente è di Joe Cocker”.
“Ma vattine va...”
Lo spettacolo non era dei più edificanti, vedere quelle due cupole di San Pietro che si agitavano a ritmo di Rithm n’ Blues era davvero troppo.
Hilary si fece avanti col “Vodkasour tenghiù” per Palla di Neve
“Siamo già alticce vedo! Questo lo vuoi ancora?”

“Ah grazie Ilaria, che caruccia, siccome ci stavi mettendo tutto sto tempo ho succhiato nu poco di cocktails da questi simpatici signori”.

“Gli hai succhiato solo quello?”

“Uè screanzata, come ti permetti, bocchinara sarai tu"

“Troia”.

“Puttana”.

Il resto furono tirate di capelli, lacrime, rimmel e vene varicose. Nella parapiglia la ringhiera della balconata cedette e il casino fu generale, una vera ammucchiata. La polizia arrivò in pochissimo tempo, probabilmente erano nel locale adiacente.

“Fermi tutti accendete la luce.”

Era il brigadiere Scucimarro, mio temporaneo collega durante il concorso “Sbirro per un giorno”

“Uellaaa, Scuciii”.

“Uè dottò, che succede, che è sto casino, chi ha cominciato?”

"Se fai spegnere le luce te lo dico".

“Fermi tutti, spegnete le luci!”

Con la luce ultravioletta tutto fu chiaro di nuovo, anzi luminoso. Puntai il dito.

“Vede quell triangolo luminoso in mezzo a quell’accozzaglia di gambe e braccia? “

“Si dottò.”

“É stata lei.”

“Dottò, siete una cannonata! Meglio di Grissin"

“Grissom?”

“Si quello di Las Uegas Posso arrestarla?”

“Mah, non saprei e poi non sono dottore. Insomma Scuci, fai un po’ come ti pare, sei tu lo sbirro.”

Palla di neve fu scortata fuori da due agenti, sputando veleno in dialetto Napoletano. I due, pensando che gli insulti fossero per loro, una volta fuori la manganellarono ancora un quarto d’ora.

Intanto all’interno si cercava di rimettere in piedi la balconata alla bell’e meglio. C’era poco da fare. Quella culona aveva divelto i tasselli dal muro. Alan, approfitando della parapiglia, era già appoggiato al bancone a riordinare le idee in compagnia di un chupito.

“Vuoi anche la pera?”

“Ma sei matto, per chi mi hai preso per un tossico? Eh eh, capito no? Tossico, pera, era una battuta”.

Spiegava sempre le sue battute. Non riteneva il resto del mondo abbastanza intelligente per le sue parole. Ma nalla sua magnanimità decise di dispensare alcune pillole di saggezza sul gentil sesso. “Ah, le donne, guarda che casino, e pensate che nel ’76, durante un concerto a Tabiano Terme, si sono picchiate in quattro non in due, in quattro”.

Hilary, che si stava ancora levando cocci di vetro e cubalibre di dosso, gli passò accanto proprio in quel momento, lo guardò un attimo in faccia, e furono di nuovo botte da orbi.

“Bastardo!”

“Puttana!”

Era troppo. Basta con la violenza nei pianobar, agguantai la giacca del gessato e mi dileguai nella notte brerina e primaverile. Parecchio tempo dopo, seppi da fonti vicine alla coppia, che quella notte, Alan e Hilary, dopo anni, forse dal ’78, o dal ’76, fecero di nuovo l’amore. In ogni caso io me ne ero andato in tempo.




Creative Commons License
Questo/a opera è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.