mercoledì 31 dicembre 2008

A night at: "Piacioni's"

Quanto più si avvicina la fine dell’anno, tanto più si avvicinano le conclusioni, la conclusione. Non dell’anno, quella è scontata, ma le conclusioni tirate, sconclusionate, quelle fatte per dare una ragione ad un anno senza senso. Il Pelouche era chiuso. Il Tristezza club era chiuso, ma per altri motivi. Era fallito. Che tristezza. In fondo era stato il primo pianobar nel quale avevo posato il mio culo curioso, assetato di alcol e di vita vissuta. Nel giro di qualche mese lo avrebbe sostituito una boutique d’antiquariato. Che palle! Alan era felice. Il tristezza club era il suo più acerrimo nemico. Dirimpettaio succhia-clienti, sulla tomba del quale, finalmente, poteva ballare al ritmo di Maracaibo. Non riusciva a capire, che la zona si stava lentamente desertificando e che la morte di un, seppur moribondo arbusto, non contribuiva all’abbondanza di nessuno. Credo che in cuor suo si augurasse la morte di ogni altro possibile concorrente, puntando silenziosamente ad un monopolio che, alla lunga, gli si sarebbe rivoltato contro.
Cazzi suoi.
Ultimamente una silenziosa clientela di qualità si era data alla macchia. Una minoranza stufa dei prezzi esagerati aveva iniziato a non farsi più vedere al Pelouche. Io ero uno di quelli. Uno di quelli: “di cui si poteva fare a meno”. Poco male, in fondo ho sempre amato il minimalismo, anche quando viene esercitato contro di me.
“tanto il locale è sempre pieno” diceva Alan.
Si, ma non della stessa gente.
L’intellighenzia non ne poteva più, non era per i prezzi, ma per la inesistente cura di chi aveva fatto la fortuna di quel locale: I clienti.
Più che clienti, protagonisti, che ora erano solo fredde voci di bilancio.
Al diavolo!
Una ristretta cerchia di idealisti, alle soglie della fine dell’anno, aveva trovato di meglio che piangere di fronte ad una serranda chiusa. Aveva preferito fare due passi al freddo e dare inizio ad una riunione sediziosa at “Piacioni’s” una tabaccheria d’angolo con cucina, l’equivalente di un angolo cottura dedito al tabacco, ma con licenza di fumare. Un angolo dedito all’alcol oltre che al fumo. Un angolo di strada decisamente vizioso, se visto con gli occhi della comune morale, ma una potenziale culla di idee rivoluzionarie.
Presenziavano all’evento, oltre a me, Miguel, esule cubano dagli occhi di ghiaccio che stemperavano un sangue bollente come rhum e Beto, fratello di sangue di Miguel, di qualche anno più giovane ma accomunato dalla torrida temperatura del flusso sanguigno.
Gente rara.
L’argomento di discussione era piuttosto spinoso: “le donne”.
Di fronte a dei mostri sacri del genere non si può che ascoltare e ringraziare Dio, l’universo o qualsiasi altro delegato, per aver permesso una simile serata.
Solo con persone simili ci si rendo conto di quanto poco si possa fare di fronte at un mistero come la femminilità. Età diverse, esperienze diverse, eppure una consapevolezza comune. Più successi si collezionano, più esperienze si inanellano e più ci si rende conto di quanto si sia esposti al caos.
Parlammo fino a tarda notte, fin quando quella bambola della cameriera, dalla coda alta e dall'accento incerto ci disse, che stavano chiudendo baracca e bamboline. Continuammo a speculare per la strada, a pontificare sui ponti di Madison County. Sul fascino dell'uomo venuto dal mistero, su appuntamenti al buio, futuri e passati. In fondo l'unica cosa che non sia buia è il presente. Non arrivammo ad un bivio, arrivammo ad un trivio ed ognumo andò per la sua strada. in fondo Brera sono quattro vie in croce, ma noi eravamo solo in tre.
L’unica soluzione? La NON soluzione. L’unico modo di risolvere il caos è riuscire a galleggiarci sopra, come una foglia morta, come un tronco d’albero, come uno stronzo.

domenica 9 novembre 2008

Per quel poco...


Sono arrivato ad una drammatica e imbarazzante conclusione: Scrivo poco.

Non vuole essere una dichiarazione d'intenti, o una promessa a cambiare. Se scrivevo poco prima, non credo che le cose miglioreranno. C'è chi dice meglio pochi (post) ma buoni, magari al sapor di cioccolata. C'è chi mi definisce uno scrittore emergente, forse perchè sono emerso per quel "poco di buono" che sono. Una verità c'è, quello che si è nel poco lo si è anche nel tanto. Per ora sono un minimalista.

martedì 15 luglio 2008

Noi non siamo normali

Noi non siamo normali,

Erbacce in un campo

di papaveri senz' oppio.

Noi valiamo il doppio.



Noi non siamo normali.

Sacerdoti e fedeli

di culti immorali.

Noi siamo Immortali.



Noi non siamo normali.

Eppure rimaniamo fedeli,

rose spinose nell’alto dei cieli,

Unico fiore di tutti i mali.

venerdì 11 luglio 2008

Il fastidio di Mr. P

-Scusi, ha una penna?-

-No, ma ho un’ottima memoria.-

La bionda tanto sprovveduta quanto sprovvista di penne, rimase improvvisamente anche a corto di parole. Quando si indossa un miniabito nero con la scollatura profonda come la fossa delle marianne e i capelli freschi di parrucchiere, non ci si aspetta una risposta simile. La bocca che l’aveva proferita continuava ostinata a fumare una sigaretta dal fumo blu.
Il fatto che in quel breve lasso di tempo si fossero materializzate decine di penne di fronte a lei la lasciò piuttosto indifferente, pescò la prima dupont d’oro dal mazzo e scrisse noncurante un numero di telefono sul sul retro delle sue capri ultraslim. I suoi occhi lanciavano, furtive occhiate in tralice, a quell’arrogante esemplare di maschio milanese. Ad un osservatore esterno, ferrato in cinematografia americana degli anni cinquanta, la scena poteva richiamare un frammento di “Gli uomini preferiscono le bionde” dove una Marilyn in forma smagliante sgambettava per il palco inseguita da ballerini col cuore in mano. In questo caso il corpo di ballo era formato da soggetti meno disinvolti e più attempati ma agilissimi nell’estrarre accendini, penne e banconote per offrire da bere alle Marilyn di turno.
Restituì la penna e, guardandolo ancora una volta, incespicò sui gradini traditori del Pelouche
-Faccio da sola- li fulminò con lo sguardo.
Dieci paia di mani erano già pronte a sostenere le sue rotondità.
Lui, neanche un plissé, continuava imperterrito a fumare perso nei suoi pensieri. Erano rientrati quasi tutti.

-Non entri? Stasera c’è la riffa, ma io ho già vinto!-

Alan, mentre diceva questo, lo guardava con gli occhi lucidi e furbi di un bambino che ha appena rubato la marmellata.

-Le ho dato il mio numero di telefono.-

-Che cos’è un impresario?-

-Bah, non ti ascolto nemmeno, ma ‘hai vista?-

-si, di sfuggita.-

-credo che questa sera non ci sarà molta gara.-

-Ti candidi anche tu?-

-Oggi sei più corrosivo del solito.-

-Ma no, è che... Stasera, avverto un certo fastidio...-

To be continued...

Foto di: Lady AnnDerground

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giovedì 3 luglio 2008

Del perchè sarò un tennico a vita

Si, a fine mese appendo il mouse al chiodo, quello dell’ufficio almeno. Ma, c’è un ma. C’è sempre un ma. Il mio si è materializzato sotto forma di cognato tecno-negato. Certe persone non dovrebbero poter accedere alla tecnologia. Dovrebbero limitarsi ai televisori (meglio se a valvole) al cellulare o a tipi di tecnologia che non necessitano di essere capiti per funzionare (ad esempiol’ABS dell’automobile).

-Pronto Peppo?-
-Seeeeeee.-
-Ti disturbo.-
-mannò figurati, dimmi tutto.-
-Non mi va internet.-
-Gnngnggg (rumore di denti che digrignano), ehm... Si.-
-Ho già chiamato Telecom e dicono che non è un problema loro.-

Apro un piccolo inciso, sono poche le colpe non attribuibili a Telecom. Inoltre i call center sono situati su di un satellite geostazionario in orbita nella spazio e i cervelli in assenza di gravità iniziano a dare segni di squilibrio.

-Mi hanno detto che se voglio il tennico ci vogliono 24 euro, non è che hai tempo di passare?-
-SSSi, ma non precipitiamo, hai controllato i cavi?-
-Si, si sono tutti a posto.-
-Vaaaaa bene, passo stasera.-
-Grazie, grazie, grazie, grazie...” (ad libitum).

...Poche ore più tardi.

-Drin, drin...-
-Ciao, grazie, grazie, grazie....” (ad libitum).
MI siedo davanti al computer, controllo il cavo di rete, oh, oh, è leggermente fuori, trick ora è a posto. Digito: www.google.com. Funziona!

-Ma, ma, funziona, come hai fatto?-
-Il cavo non era a posto!-
-Oh, io li ho controllati solo sotto.-
-Ad un cliente, uno scherzo simile era costato 130 euro più iva, anzi no 195, ero uscito in urgenza.-
-Che fortuna vere un cognato tennico.-
-Eh già, che culo, che culo!
-Grazie, grazie, grazie.” (ad libitum).

Risalito sul mio cavallo bianco, mi allontanai nell’arancio tiepido del tramonto.

Foto di: Kenyee

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giovedì 26 giugno 2008

L'ultimo mese di un Tennico

Ebbene si, sono un tennico, peggio ancora, sono un tennico dei computer, il che equivale ad un moderno radioriparatore TV... Antennista via! Ma lo sarò ancora per poco, questo è il mio ultimo mese. Il termine Tennico non è una sgrammaticatura italiana, è una figura professionale creata dal glorioso Stefano Benni nel suo imperituro “bar sport” ma usatissima anche all’ombra della Madonnina. La dabbenaggine dell’utente medio sconvolge anche le pellacce più dure, tipo la mia. Basta con clienti noiosi che ti chiamano in continuazione dicendo: “Presto venite subito, non mi va Internet!”. Sappiatelo una volta per tutte Internet non può non andare!!! Tanto varrebbe dire “Fermate il mondo... voglio scendere”. Se si superano i primi dieci minti di telefonata, dove il cliente spiega confusamente i sintomi che affliggono la sua postazione di lavoro, il peggio è passato. Confesso di aver odiato per molto tempo gli operatori di call center della Telecom, ma spararsi otto ore al giorno di: “Non mi va internet” credo sia una cosa che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico. Nel palazzo della Acer, nota azienda produttrice di personal computers, all’ingresso, c’è un piccolo giardino Zen. Sapete, una di quelle cose che sembrano la lettiera del gatto con in mezzo qualche sasso e il rastrellino per pettinare la sabbia. Alla Telecom credo che tale giardino possa avere le dimensioni di un campo da calcio, con migliaia e migliaia di rastrelli. Io, nei giorni difficili mettevo il pannolone alla gatta e mi portavo via la vaschetta, poi al telefono coi clienti, disegnavo cerchi perfetti intorno ai pezzi di pupu.
-Pronto?-
-Seeee...-
-Sono Gabola della ditta xxx, non ci va la mail- (magari non vi scrive più nessuno)
-Si è rotto il backup- (a me invece avete rotto...)
-Il computer non mi vuole restituire il CD-
-Orpo, cosa ascoltava?-
-Matia Bazar-
-Dica addio al suo CD, caro mio, i computer vanno matti per i Matia Bazar-
-Insomma da quando siete venuti voi (tennici) qui non va più niente!-
Tu... Tuuuuu, Tu... Tuuuuu. (Frase da evitare, i tennici sono molto permalosi)
E giù a rastrellare sabbia.

Foto di: Filegender

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martedì 24 giugno 2008

Vergogna!

Sono quasi due mesi che non scrivo una riga.
Che schifoso...
Ma fa così caldo...

lunedì 5 maggio 2008

Buon compleanno... Fuffany

Io, sei anni fa, quando è nata, non c'ero, o meglio non ero presente, ma doveva essre bellissima. Altrimenti non sarebbe quella gran figa di una gatta che è adesso, all'equivalente età umana di 35 anni.

 La mia zucchina pelosa si è trasferita da me solo lo scorso ottobre. Il suo Ex-padrone l'ha dovuta affidare a causa di una non meglio precisata allergia, di un non meglio precisato nipote della non meglio precisata fidanzata. Pazzo!

Per essere una gatta ha più nomi persino di me: Sul suo libretto sanitario c'è scritto Rea, (rea di cosa poi? Povera anima). Il suo Ex la chiamava Pallina (Bah...). Io l'ho ribattezzata Tiffany, nome snob degno di una gatta di Brera.

Quindi, Rea Pallina Tiffany, per gli amici zucchina pelosa. Le altre sue varianti sono Fuffany (quando fa cose insensate, almeno per me). Oppure Fiffany, quando si va a nascondere per paura di qualcosa.

Cosa poteva fare una gatta simile se non andare dal veterinario il giorno del suo compleanno?
Si, perchè dopo le manifestazioni di gioia e giubilo per il mio ritorno dal ponte, ha deciso, tra una scorribanda e l'altra, di cimentarsi in svariati episodi di vomito. Il tutto rigorosamente di notte. Così, da padre apprensivo e assonnato quale sono, alla seconda vomitata mattutina, l'ho portata dal dottore.

Tutto a posto, una fialetta di plasil e qualche giorno di pollo bollito (che culo!).
Che dire, Buon compleanno Tiffany.


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martedì 29 aprile 2008

One bag, l’arte del viaggiare leggeri

Non sono un amante sfegatato dei viaggi,. Per me, i Bastioni di Porta Volta sono le colonne d'Ercole, il mondo finisce li e Corso Como è già periferia. Sono piuttosto pigro ma nonostante ciò ho girato parecchio: Emirati Arabi, Indonesia, Stati Uniti, Inghilterra Francia.

Ogni volta mi sono domandato una cosa, ovvero se fosse stato possibile portarsi appresso meno bagaglio possibile.

Sono un amante del minimalismo in tutte le sue forme. Non arrivo ad estremismi francescani, ma detesto tutto ciò che è superfluo e ingombrante e quando si viaggia questo è fondamentale.

Il minimalismo, oltre ad essere un toccasana per la mente, è pratico. Meno c’è, meno si rischia di perdere. In questo caso i bagagli.

So che le donne e ancor più le donnacce storceranno il naso davanti a queste scelte. Considerando che le dimensioni medie di un beautycase rasentano quelle del Piccolo forno Harbert e che non c’è modo di riporre intelligentemente un paio di decoltè da 12 cm, senza svitarne il tacco, sicuramente sono loro quelle con i nervi più scoperti. Il popolo femminile è, in assoluto, quello che più soffre (e crea problemi) quando si tratta di partire.

Questo sito offre delle geniali soluzioni per viaggiare al minimo, senza ridursi a dei totali barboni.
Imparate donnacce, imparate.

E voi, viaggiate leggero o pesante?

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martedì 15 aprile 2008

L'arte del Gin 'n Tonic

Chiaro e limpido come un bicchiere di acqua gasata. É così innocente, che quasi, non ti senti in colpa a berlo. Il primo devo averlo bevuto verso i ventitrè anni, ad una festa. Vi dico solo che al secondo bicchiere ho morso, in pubblico, il sedere, ad una ragazza. La conoscevo a malapena. Da allora non bevo altro e la ragazza in questione è diventata una mia grande amica. Detta così sarei un buon candidato per entrare all’anonima alcolisti o almeno in un elenco di molestatori. Ma il mio grande amore per questo drink mi ha portato a fare delle ricerche e, girando e rigirando per il web, (mia principale attività) mi sono imbattuto in quella che si auto proclama “The perfect Gin ‘n Tonic Recipe”. Ovvero la ricetta per il perfetto Gin ‘n Tonic. Traduco e riporto:

Occorente:

• Un bicchiere Collin/Highball, ma è sufficiente un bicchiere alto.
• Qualche limone [Ben lavato]
• Cubetti di ghiaccio [Parecchi]
• Gin [Tanqueray, non si discute, va bè, Bombay Sapphire come seconda scelta.]
• Bottiglietta di Schweppes tonica.

E ora... La ricetta [Con i suoi segreti]

• Tagliate una fetta di limone e spremetela all’interno del bicchiere, in modo da spremere, oltre al succo, anche l’olio della buccia. Poi lasciatela sul fondo.
• Riempite il bicchiere con i cubetti di ghiaccio, fino all’orlo [Ripeto, fino all’orlo].
• Spremete mezzo limone sopra il ghiaccio. Aspettate 30 secondi.
• Riempite il bicchiere per 1/3 con il Gin [Quanto volete forte il vostro drink?]
• Riempite il resto con acqua tonica.
• Mescolate, gentilmente, con la lama del coltello, con cui avete tagliato i limoni.

Ora tutti sappiamo la ricetta del PERFETTO Gin ‘n Tonic. Non resta che provarla.

Bevete responsabilmente e non morsicate l’altrui culo. [Me tocca dirlo...]

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mercoledì 9 aprile 2008

Due cuori e una capanna da un milione di dollari

Negli anni ottanta tutto era possibile. L’edonismo regnava sovrano e parole come “improbabile” erano bandite da qualsiasi telefilm. Questo, nonostante tutto, era un bene. Almeno non eravamo costretti a sopportarci la fiction all’italiana.

Quella dolce-amara, “come la vita” Perchè: “Nella vita reale non sempre c’è il lieto fine”. Appunto. C’è già la vita reale con la quale Dobbiamo scontrarci, perchè mi devi “far riflettere” anche davanti alla televisione? Io sono uno strenuo sostenitore del leito fine e DETESTO qualsiasi genere di fiction dove lo sceneggiatore mi fa affezionare ad un personaggio e poi lo fa morire a cinque minuti dalla fine.

Io, davvero, questo sadismo da teleschermo non lo accetto. Quando ero piccolo si che le cose funzionavano. Non importava a nessuno che un investigatore privato facesse i pedinamenti su di una Ferrari, o che la maggior parte degli eroi da telefilm fossero reduci della guerra in Vietnam. O ancora, che un milionario e una rossa cotonata fossero sempre costantemente innamorati e si cacciassero, ogni sacrosanta puntata nei guai.

Visto che in questo periodo si parla di matrimoni, non potevo non parlare di un piacione e di una donnaccia ai quali sono stato legato in tenera età. I coniugi Hart. Una sorta di papà e mamma alla nitroglicerina. Sono sicuramente stati i progenitori di tutti i Mr. E Mrs Smith a venire. La serie in origine si chiamava “Hart to Hart” e giocava sull’assonanza del loro cognome Hart con parola heart, che in inglese significa cuore. Non a caso in Italia, il titolo del telefilm è stato tradotto con “Cuore e batticuore”.

Mai titolo fu tradotto meglio a mio parere. Un marito e una moglie che più innamorati non si può. Certe scenette di ostentato romanticismo da parte di lei (Stefanie Powers) erano davvero rimarchevoli e in generale avevano a che fare con regali costosi da parte del marito (Robert Wagner). A parte lo zucchero e la melassa che, colava da ogni parte, Il telefilm era un classico mistery-action dei gloriosi 8Os e quindi mi piaceva un sacco.

C’erano esplosioni, inseguimenti, cadaveri, e non si faceva mai male nessuno. Soprattutto i protagonisti. Perfetto. Dall’unione della coppia erano nati anche un maggiordomo: Max (Lionel Stander) ed un cagnetto peloso, molto snob. Altro che figli. Sarei stato proprio curioso di vederli a cambiare pannolini tra un omicidio e un’altro.



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lunedì 7 aprile 2008

Testimone oculare... Di nozze.

La notizia è fresca fresca. Chi l’ha sparata (grossa a parer mio) ha ancora la pistola fumante in mano, ma le scelte di vita non si discutono. Una mia carissima amica, anzi diciamo pure ex-morosa, si sposa. Fa pure rima, che cosa potrei aggiungere d’altro. Che mi ha chiesto di essere il suo testimone di nozze. Avrei preferito essere testimone del suo divorzio, istituto per il quale nutro molta più simpatia. Ma prima bisogna pur sposarsi, per divorziare c’è sempre tempo. Tutto questo mi ha lanciato in una serie di riflessioni esistenziali. Posso io, ultimo baluardo antimatrimonialista, anticonvivente, anticonformista, testimoniare l’unione di due persone, di cui una sicuramente amica, davanti ad un ufficiale di stato, o peggio ancora davanti ad un sacerdote? Ci sarà da ridere e comunque c’è ancora tempo, si parla del 2009. Potrei anche morire nel frattempo. Mica male come idea. No, ormai ho detto “Si, lo voglio”. In fondo potrebbe essere una grande occasione per guardare da vicino qualcosa di terrificante come il matrimonio, senza rischiare nulla. Un po’ come andare allo zoo a vedere le tigri dietro le sbarre o un film di Dario Argento con la luce accesa, abbracciato alla mia gatta a mo di pelouche. Ma sì, bisogna pur rischiare nella vita. Non mi resta che mangiare la torta nuziale. Vi terrò aggiornati. Stay tuned.


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venerdì 4 aprile 2008

L'importanza di chiamarsi: Mister Micia

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mercoledì 2 aprile 2008

Remington Steele: Il piacione d'acciao (o quasi...)

Bello, di classe e con un passato che definire oscuro è poco. Tutto quello che serve per far innamorare una donna. Prima di Dante’s Peak, molto prima che vestisse i panni della più famosa spia al servizio di sua Maestà, Pierce Brosnan era Remington Steele.

Uno dei personaggi più azzeccati della telefilmografia mondiale. Detective per caso, piacione per scelta. Già il nome è tutto un programma: Remington è una nota marca di articoli per uomo (rasoi elettrici e armi da fuoco), Steele non vuol dire niente, ma suona come steel, che in inglese, significa acciao.

Un nome da "Vero duro”. Fascino inossidabile. Come poi confermato nei panni di 007, non c’era donna che gli resistesse, neanche la sua titolare, nonostante facesse un po' la sostenuta. Però... C’è un però. Ora dirò qualcosa che ai puristi del super agente britannico, suonerà come una bestemmia. Perce Brosnan è stato sicuramente uno dei migliori interpreti per il ruolo di James Bond, ma io lo preferivo nei panni di Remington Steele. Il personaggio gli calzava di più. Remington, alias Pierce, era sempre ben vestito, elegantissimo un vero dandy.

Fu un personaggio rivoluzionario. Lui era sicuramente un uomo d’azione, ma il “Cervello” era Laura Holt (Stephanie Zimbalist). Inoltre si cacciava in un sacco di guai, spesso faceva gaffes ed era tutt’altro che infallibile. Proprio per questo aveva un fascino che i veri “Perfettini”, non avranno mai. Insomma un vero piacione, perchè se cadeva si rialzava, si aggiustava la giacca e i capelli cotonati e tornava alla carica.

Con questo post vorrei inaugurare la categoria Fantapiacioni. L’intento è far lustrare gli occhi alle lettrici di questo blog fornendo, contemporaneamente esempi e modelli maschili da additare ai loro eventuali compagni/fidanzati/mariti/schiavi. Spronandoli a comportarsi a vestirsi o almeno ad atteggiarsi come “Veri Uomini”. E se vi diranno “vabbè ma quello è un film” voi rispondete pure: perchè la vita no?

Qual'è il vostro piacione da telefilm preferito?


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lunedì 3 marzo 2008

Palla di Neve All'inferno

Il Pelouche, si sa, è un girone dantesco. L’inferno in terra. Un posto dove la temperatura sale a trentasei gradi anche in pieno gennaio, ed è necessario accendere l’aria condizionata come d’estate. E’ l’ombelico sudato del mondo, forse il centro stesso della terra.


L’età media della clientela è più spostata verso gli anta che gli enta. Gli enti ci entrano solo in veste di Ente pubblico, per controllare inezie come, l’igiene la pulizia e lo stato di conservazione di Alan il proprietario. Un uomo che aveva attraversato indenne gli anni settanta, ottanta e novanta cantando sempre le solite tre canzoni, di cui due solo da interprete.

Alan incarnava il tipico maschio alfa del gruppo, un'etichetta utilizzata spesso nello studio degli animali feroci, tipo i leoni, tigri, pappagalli; e lui, con quella criniera che si ostinava a tenere lunga, sembrava ormai un vecchio leone spennacchiato. Anche il comportamento non lo tradiva, infatti si limitava ad oziare da un divanetto all’altro del suo locale sorseggiando qualsiasi cosa che avesse una gradazione alcolica superiore al quaranta percento o almeno un elevato numero di ottani.

A procurare il cibo ci pensava Hilary, che nonostante il nome esotico non era né giovane né bella né tantomeno straniera. Le sue origini affondavano nel profondo sud Italia, in qualche frazione impronunciabile in provincia di Palermo. A lei l’ingrato compito di emettere scontrini (ne avrebbe fatto volentieri a meno) e di controllare l’incasso della serata. L’acca e la “iupsilon” come la chiamava lei, se le era aggiunte ai tempi in cui faceva la groupie al seguito di gruppi come “I Nomadi” e “I Corvi”.

Fù proprio durante uno di quei concerti che cadde, cotta stecchita di: “un giovane e grintoso supporter dalla voce nera e dal cuore bianco”, così almeno lo definiva lei. In trent’anni di romantica unione non era cambiato nulla. Lei lavorava e lui cantava (e beveva). Ma Hilary non era l’unica a sbavare ancora dietro a questo monumento della musica italiana. Alan era il vessillo di una generazione di donne alle quali ancora ribolliva il sangue non appena lui prendeva in mano il microfono. Sopratutto una fan era rimasta fedele negli anni e non si era persa neanche un venerdì da quando Alan era ospite fisso nel suo stesso locale.

 Occhi lucidi e tremori si diffondevano a macchia d’olio alle prime note di... Ma torniamo a lei, Letizia detta Letty, altra grande amante delle iupsilon, ultracinquantenne partenopea D.O.C. lavorava, imbucata da vent’anni, alla direzione di un oscuro ufficio comunale sperduto nei dedali di un palazzone del centro. Uno di quei posti che, se ci entri da giovane, sei salvo fino alla pensione anche perchè nessuno sarebbe in grado di rintracciarti prima di trentacinque anni. Letty amava il bianco, sembrava la fiera del bianco della Standa da tanto ne usava, aderente come una seconda pelle, su di un corpo botticelliano, nel senso della botte.

Usava sopratutto una particolare variante di bianco per la biancheria intima, limitata per altro ad un semplice tanga brasiliano. Questo bianco aveva la caratteristica di reagire alle luci ultraviolette di cui il Pelouche era disseminato, trasformando quel minuscolo triangolino di cotone in un insegna al neon che triangolava prepotentemente la sua, chiamiamola femminilità. Nell’iniseme sembrava di assistere ad una delle peggiori puntate di C.S.I. Las Vegas. Non è difficile capire che questa presenza costante disturbasse non poco la Matrona del Pelouche, la quale le aveva affibbiato l’eloquente soprannome di PALLA DI NEVE. Tutto sommato era stata ancora una signora.

Anche quel venerdì, puntuale come una sciagura, Palla di neve alla 23:30 spaccate fece la sua comparsa: “Uèèèè Ilaria, come va, ti trovobbbbene” buffettino sulla guancia. “bene, bene, anche tu sempre in forma eh, poi il bianco ti dona così tanto”, “Chemmortorio, ma Alan non ci stà?” “ehm, ehm, arriva, arriva, è andato a schiarirsi la gola qui vicino, ma, accomodati, cosa ti servo?” “Vodkasour, tenghiù” e si andò a sedere sul suo trespolo preferito. Hilary andò sul retro a recuperare del ghiaccio, “Dio come odio quella strega, questa sera sento che andrà a finire male.” Dani, la cameriera storica del locale, la guardava divertita pulendo i bicchieri.

Intanto Alan aveva fatto la sua comparsa. Si era tenuto addosso il Chiodo con cui andava in giro dal '78, come facesse a resistere con quel caldo nessuno lo ha mai capito. Era appena partito il giro di basso di “Unchain my heart” di Joe Cocker e palla di neve era già in visibilio, si sbracciava dalla balconata mostrando generose porzioni del suo decoltè da una parte e porzioni standard del suo generoso culone dall’altra. All’urlo di “Allllann sei tutto maschio”. Poi dando di gomito all’amica che aveva accanto: “chista l’ha scritta per me”
“Veramente è di Joe Cocker”.
“Ma vattine va...”
Lo spettacolo non era dei più edificanti, vedere quelle due cupole di San Pietro che si agitavano a ritmo di Rithm n’ Blues era davvero troppo.
Hilary si fece avanti col “Vodkasour tenghiù” per Palla di Neve
“Siamo già alticce vedo! Questo lo vuoi ancora?”

“Ah grazie Ilaria, che caruccia, siccome ci stavi mettendo tutto sto tempo ho succhiato nu poco di cocktails da questi simpatici signori”.

“Gli hai succhiato solo quello?”

“Uè screanzata, come ti permetti, bocchinara sarai tu"

“Troia”.

“Puttana”.

Il resto furono tirate di capelli, lacrime, rimmel e vene varicose. Nella parapiglia la ringhiera della balconata cedette e il casino fu generale, una vera ammucchiata. La polizia arrivò in pochissimo tempo, probabilmente erano nel locale adiacente.

“Fermi tutti accendete la luce.”

Era il brigadiere Scucimarro, mio temporaneo collega durante il concorso “Sbirro per un giorno”

“Uellaaa, Scuciii”.

“Uè dottò, che succede, che è sto casino, chi ha cominciato?”

"Se fai spegnere le luce te lo dico".

“Fermi tutti, spegnete le luci!”

Con la luce ultravioletta tutto fu chiaro di nuovo, anzi luminoso. Puntai il dito.

“Vede quell triangolo luminoso in mezzo a quell’accozzaglia di gambe e braccia? “

“Si dottò.”

“É stata lei.”

“Dottò, siete una cannonata! Meglio di Grissin"

“Grissom?”

“Si quello di Las Uegas Posso arrestarla?”

“Mah, non saprei e poi non sono dottore. Insomma Scuci, fai un po’ come ti pare, sei tu lo sbirro.”

Palla di neve fu scortata fuori da due agenti, sputando veleno in dialetto Napoletano. I due, pensando che gli insulti fossero per loro, una volta fuori la manganellarono ancora un quarto d’ora.

Intanto all’interno si cercava di rimettere in piedi la balconata alla bell’e meglio. C’era poco da fare. Quella culona aveva divelto i tasselli dal muro. Alan, approfitando della parapiglia, era già appoggiato al bancone a riordinare le idee in compagnia di un chupito.

“Vuoi anche la pera?”

“Ma sei matto, per chi mi hai preso per un tossico? Eh eh, capito no? Tossico, pera, era una battuta”.

Spiegava sempre le sue battute. Non riteneva il resto del mondo abbastanza intelligente per le sue parole. Ma nalla sua magnanimità decise di dispensare alcune pillole di saggezza sul gentil sesso. “Ah, le donne, guarda che casino, e pensate che nel ’76, durante un concerto a Tabiano Terme, si sono picchiate in quattro non in due, in quattro”.

Hilary, che si stava ancora levando cocci di vetro e cubalibre di dosso, gli passò accanto proprio in quel momento, lo guardò un attimo in faccia, e furono di nuovo botte da orbi.

“Bastardo!”

“Puttana!”

Era troppo. Basta con la violenza nei pianobar, agguantai la giacca del gessato e mi dileguai nella notte brerina e primaverile. Parecchio tempo dopo, seppi da fonti vicine alla coppia, che quella notte, Alan e Hilary, dopo anni, forse dal ’78, o dal ’76, fecero di nuovo l’amore. In ogni caso io me ne ero andato in tempo.




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