mercoledì 28 novembre 2007

Brindisi di Natale


Nonostante questo racconto si basi su elementi realistici del soccorso, è da intendersi come totale frutto della fantasia distorta dell’autore. Fatti, persone e situazioni sono completamente inventati e permeati da pesanti dosi di ironia. Ogni riferimento è puramente casuale.

Luogo dell’evento: Milano centro, adiacenze locali trendy.
Orario: Happy Hour.
Periodo: Pericolosamente vicino al Natale.
Il solerte cittadino, dall’alto dei suoi mocassini scamosciati lo scorge. Giace semi seduto, tra un bidone della spazzatura e un palo della luce. Nonostante i due Negroni sgollati alla cosacca e la montagna di tartine trangugiate decide che è giunto il momento di fare una buona azione, Il Natale da alla testa. L’homeless, dai milanesi amichevolmente detto Barbun, sonnecchia placido. La mano è ancora teneramente attaccata al suo vino cartonato e la testa è reclinata su di un guaciale di plastica nera. La mente, persa in un paradiso artificiale, sogna un mondo dove il vino è gratis e il lavoro non esiste, quindi non puoi neanche perderlo.
Non disturba. Non chiede soldi. Dorme. Questo è troppo per gli occhi del Neo Buon Samaritano, lesto, compone il numero magico sul suo telefonino di ultima generazione, biascicando il problema all’operatore. La chiamata parte dalla poderosa antenna della centrale. Rimbalza su di un paio di satelliti russi. Transita per una manciata di nodi equivoci di Internet trovando l’uscita attraverso un traliccio dell’Enel. Da li si concentra nell’etere, colpendo in pieno la radio di una sonnecchiante ambulanza e i suoi quattro, altrettanto sonnecchianti, volontari. Auto XX, Prendi nota per un servizio, ti rechi in via XXXX, angolo XXYY per un malore in strada. Intanto sul luogo dell’evento, gli amici del Telefonista gli si avvicinano per stringere la mano a questo raro esempio di virtù.
-Ah, Fossero tutti come te, questo mondo sarebbe migliore.-
-Ah, se ci fossi stato tu quando Pupa si è sentita male a Porto Rotondo, tu si che avresti saputo cosa fare e magari ora sarebbe qui a fare l’aperitivo con noi.-
-Ah Gian... Non è che mi offriresti un’altro giro di bollicine? Ho finito l’argent de poche.-
Il gran fragore di bitonali e luci stroboscopiche concentra l’attenzione del popolo della notte
I soccorsi vengono accolti dai presenti con sguardi attoniti e incuriositi.
Ad un occhio inesperto sembra l’arrivo degli acchiappafantasmi.
I Quattro, nelle loro tute fluorescenti, fendono la fola con professionalità, incuranti di tutto e di tutti tranne che del paziente.
Lo svegliano chiamandolo e scuotendolo delicatamente: “signore signore, mi sente...”
la risposta non tarda: “ va da via el...” E si gira dall’altra parte.
Non si può dire che non risponda allo stimolo verbale.
La pervietà delle vie aeree è assicurata da un sonoro russare,
-Come si chiama?-
-...Buh.-
Scheda paziente:
Nome: Buh, Cognome: non pervenuto, sesso M, domicilio SFD (Senza Fissa Dimora).
“Vuole venire in ospedale con noi?”
-... Grrr- Ringhia.
Sempre penna alla mano, ”Il paziente rifiuta il ricovero...”
Al che, viene lasciato marinare nel suo brodo etilico.
Ma il Neo Buon Samaritano non ci stà, in fondo ha interotto il suo aperitivo per motivi umanitari e si indigna. In un momento di lucidità sbotta in un: -Ma come, non lo portate via? E se muore? Ma questo è uno scandalo e poi parlano di malasanità.-
Il caposervizio, con la calma di un monaco Zen spiega la situazione.
“Il signore non necessita ricovero, e pur disturbando la vista del paesaggio urbano, non versa in condizioni critiche tali da giustificare un intervento d’emergenza. Buonasera.-
I quattro fluorescenti risalgono sul mezzo di soccorso
Il mocassinato è tutto un fremito, gli ci vorrebbe un altro Negroni per calmare i nervi.
Si agita sdegnato e pronuncia frasi sconnesse.
Muovendosi in maniera scoordinata e minacciosa, inciampa nel bordo del marciapiede. La caduta a terra è inevitabile.
Occhi al cielo del capo servizio, tutti giù di nuovo.
Si massaggia la testa.
-Vuole venire in ospedale?-
-Ohi, che botta! No, sono qui con degli amici.-
-Ma questo è un trauma cranico!-
-é grave?-
-Beh non si può dire, ci vuole una lastra, magari una T.A.C. Portatemi un collare.-
-Ma io non voglio venire, e gli amici?-
-Se vuole può portarne uno in ospedale, ma uno eh. Mica tutta la comitiva!
-La schiena le fa male?
-Si un po’-.
-Ahi, Ahi, Ahi-
-Come sarebbe a dire ahi ahi ahi-
Presto, spinale, ferma capo e ragno, abbiamo un politrauma qui.
-E le gambe, non le fanno male?-
-Beh si il ginocchio destro, me lo sono anche rotto a Madonna di Campiglio.-
-Bene, se sente le gambe è un buon segno. Forbici!-
-Ehi ma cosa vuole fare? Sono di Armani-
STRAAAAAP,
-Erano di Armani, poi, vorrà mica mettere sullo stesso piano un paio di pantaloni e la sua salute?!-
Il futuro premio Nobel per la pace è ormai mummificato su di una tavola spinale. Da quella posizione può fissare solo il cielo stellato.
Il Caposervizio si rivolge al gruppetto vicino.
Voi siete suoi amici?
-Bah...-
-Beh...-
-Si, lo conosciamo da poco è un amico di un amico, di un amico del mio visagista.-
Chi viene di voi?
-Dove?-
-In ospedale.-
-No, no gli ospedali mi fanno orrore, c’è cosi tanta gente malata e poi, veramente avremmo una cena...-
Poi rivolti al loro quasi amico:
-Dai Giangi, vai a farti vedere, poi ci raggiungi per il dessert e ci beviamo una bella bottiglia.-
e si dileguano rapidi sulle loro Porshe.

Nel frattempo due suorine appartenenti all’ordine delle San Samaritane della divina carità si avvicinano a Buh, il clochard. Hanno con se un thermos gigante pieno di brodo caldo, e del pane.
Glielo versano, gli lasciano un biglietto con l’indirizzo della loro mensa e scompaiono nell’ombra dalla quale erano venute. Buh si alza e si avvicina ai volontari che stanno caricando Tutankamon sull’ambulanza, lo scruta un attimo.
-Vuole dirgli qualcosa?-
-Se l’ha fa chel li ( cosa ha fatto quello li).
-L’è burlà giò (è caduto).
-O puarett (Oh Poveretto).
-Al che, alza il bicchiere pieno di brodo caldo, e rivolto al politraumatizzato.
-“La staga ben, buon Natale” e se ne va.
Il paziente diventa incosciente alle ore 22:38, si iniziano le manovre di rianimazione.

Tag: aperitivo happy hour, natale milano


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mercoledì 31 ottobre 2007

L'ultimo Temporale




Rondelle è orgolioso di ospitare il racconto di un'amica
Autrice di poesie, lettrice assidua del nostro blog e Blogger lei stessa.
Copritevi, perchè questo raccondo, da i brividi.


Erano passate da poco le tre del mattino, quando il mio placido sonno fu svegliato da una continua luce a distanza, intermittente.
La notte, buia per natura, non riusciva a darsi pace.
Uno, due, tre, quattro lampi di vita propria, uno dietro l’altro scambiavano opinioni violente con tuoni assordanti.
La paura incombeva sul mondo ostile e sulla mia anima fragile.
Una sensazione di ansia e di terrore lottava all’interno del mio corpo.
Nonostante l’aria perennemente fresca ed il forte oscillare di rami scuri che somigliavano ad un enorme ventaglio pronto a non fermarsi più, io, ritirata sotto le candide lenzuola, stavo sudando.
Il caldo attanagliava il mio spirito e l’afa gonfiava di aria torrida i miei poveri polmoni.
Era come se l’elettricità dell’aria toccasse costantemente il mio corpo inerme provocandomi lievi ma continue scosse elettriche.
Le mie gambe tremavano e il mio animo sussultava al ritmo di quella pioggia scrosciante.
I miei occhi tamburellavano da una parete all’altra della camera da letto che come in un incubo senza fine, si rimpiccioliva sempre di più.
I muri mi stavano soffocando restringendosi al minimo indispensabile.
Feci l’unica cosa sensata che il mio spirito mi suggerì. Arrancando fuori dalla stanza come un’anima in pena mi precipitai sul corridoio della morte.
Come se lo avessi fatto da sempre, afferrai al volo la mia Nikon N80 che sonnecchiava appesa alla maniglia della porta.
Il suo obbiettivo puntava dritto al mio cuore, come pronto a spararmi un colpo da un momento all’altro.
Il mio sguardo, come ipnotizzato, si fermò davanti alla porta finestra della sala da pranzo.
Immobile ascoltavo i battiti irregolari del mio cuore in gola.
Ignara di quello che da li a poco sarebbe successo, spalancai la finestra davanti a me, come se una forza innaturale, ben più possente di me, mi obbligasse ad uscire in quella tempesta.
Afferrai d’impulso un maglione e me lo infilai.
L’aria frizzante mi regalava brividi in tutto il corpo nonostante quell’ammasso di lana di quattro misure più grande di me, mi coprisse fino alle ginocchia.
Solo in quel momento mi accorsi di essere scalza.
Poi d’improvviso, la mia vista si annebbiò, solo per un istante, e il mio equilibrio si abbandonò al forte oscillare del vento.
Non avevo mai assistito ad una tempesta del genere, un susseguirsi di tuoni e lampi cosi volgari da risultare irriconoscibili.
In lontananza,oltre al continuo scrosciare di quella pioggia acida, si sentivano solo le sirene delle ambulanze e dei pompieri che si facevano via via più vicine, portando con se negatività e brutti presagi.
L’ansia si faceva più potente all’avvicinarsi delle sirene.
Il mio fisico, come impietrito, era ancora fermo sulla soglia del terrazzo come se stessi aspettando che una forza alle mie spalle mi buttasse in avanti verso l’inferno più cupo. Solo le saette, una dopo l’altra, mi riportarono alla realtà.
Mi accorsi di avere i piedi umidi di pioggia, la quale, arrivando quasi orizzontalmente, sembrava voler entrare in casa.
In meno di un secondo mi spinsi verso l’esterno e chiusi la finestra alle mie spalle.
Il tempo si placò per un istante e subito si fece giorno.
Una luce, proveniente dall’alto, quasi mi accecò, costringendomi a chiudere gli occhi.
Il rombo di un tuono senza precedenti mi riportò sulla terra e mi fece sussultare come al risveglio da un incubo.
In lontananza, voci spensierate di giovani, echeggiavano sulla notte, ritrovandosi, senza rendersene conto, al centro dell’ultima bufera.
Scongiurarono la fine dell’accaduto imprecando contro qualcuno di immensamente più grande di loro, senza rendersi conto che stavano solo peggiorando le cose.
In un attimo il cielo venne squartato in due e le ignare figure scomparvero dietro casa mia.
Urla, boati e saette giocavano a chi faceva più baccano. Come seduti in un cerchio immaginario, danzavano al ritmo del loro stesso suono.
Io impietrita, mentre loro, beffardi, ballavano un tango.
Alla vista di tutto questo orrore non riuscivo a muovere un passo.
Senza rendermene conto avevo persino smesso di respirare. Come se avessi paura di essere scoperta. Pura e semplice spettatrice di uno sfacelo ormai imminente.
Con le spalle radenti al muro, quasi giocando in un immaginario nascondino, raschiai tutta la parete sdrucciolevole fino all’angolo più esposto.
Volevo, dovevo arrivare al limite estremo di quel precario perimetro.
Come una forza indipendente dal mio spirito, sentivo il bisogno di controllare quello che stava accadendo tutto intorno a me.
La stazione si era trasformata nel girone dei dannati di Dante. I treni sfrecciavano sulle rotaie taglienti come se stessero scappando da un brutto sogno, inseguiti da saette più veloci della luce.
Non appena ebbi la certezza di ciò che i miei occhi stavano fissando, venni colta, all’improvviso, da un magnifico lampo violaceo.
Subito dopo, il tuono, fece tremare la terra sotto i miei piedi e in un istante che sembrò eterno, un’altra scossa mi trafisse il corpo.
Il mondo stava cercando di dirmi qualcosa. Il cielo, divenuto invernale, sfogliava un vocabolario onnipotente, cercando le giuste parole per farmi capire cosa stesse realmente succedendo.
Ero terrorizzata all’idea di scoprire in quella traduzione, qualcosa che mi sarebbe costata la vita.
Terrorizzata si, ma, allo stesso tempo, determinata e dannatamente curiosa.
Tutto ha un prezzo, anche il Sapere. Sarei stata pronta a morire per impadronirmene?
Volevo davvero immortalare un mondo così angusto?
Ero pronta a toccare una cosa così grande?
Ero davvero io la prescelta?
Questa volta il lampo fui io.
Presi tra le mani la Nikon, che quasi avevo dimenticato di avere al collo, forse perché mi accorsi solo in quel momento che galleggiava senza gravità, come in una astronave dimenticata nell’immenso spazio stellato.
Con uno scatto felino, tolsi immediatamente il copri obbiettivo di plastica nera e lo feci scivolare sulla sedia a dondolo, che fino a quel momento avevo scordato di possedere.
Il tappo nero sparì tra le sue pieghe come se non volesse più appartenere alla macchina, come se aspettasse da tempo interminabile di essere sradicato da essa.
Con un movimento lento e sensuale mi portai la macchina all’occhio sinistro e premetti sul pulsante di accensione.
Il rumore di trascinamento della pellicola mi fece vibrare le mani e la vista, per un attimo mi si annebbiò.
Ebbi giusto il tempo di inquadrare un angolo di cielo e di mettere a fuoco la macchina, che, in un battere di ciglia, il cielo si schiarì come mai prima.
Fu come se la pioggia si cristallizzasse in un fermo immagine.
E mentre ne cielo violaceo si combatteva una battaglia per la vita e per la morte, in quel preciso istante, un’enorme saetta carica d’odio e di passione sventrò il cielo come un bisturi sulla pelle di un paziente, poco prima di un’operazione mortale.
Nello stesso istante, come se fosse già stato programmato da una vita, il mio indice premette automaticamente il tasto dello scatto.
La mia macchina fotografica, che fino all’istante precedente stava cercando un punto luce di riferimento da mettere a fuoco, scattò nel momento esatto in cui il lampo colpì la casa affianco alla mia, provocandole un cortocircuito generale.
Lo scatto sembrava eterno come il fulmine che nei sui ultimi istanti di vita si consumò in un luccichio fluorescente quasi a voler morire in un fuoco d’artificio monocolore.
Le scintille che fuoriuscivano dal punto colpito, sembravano lapilli di un vulcano in eruzione.
La luce fu devastante al punto che dovetti chiudere gli occhi e indietreggiare, ma la luce ormai era passata.
Mi aveva penetrata come un meteorite penetra l’atmosfera terrestre.
Da lasciare senza fiato.
La rabbia e la violenza di quello shock elettrico incombevano su tutto al punto da poterne respirare il magnetismo.
Qualcosa stava andando a fuoco e non era solo la mia anima.
Sembrava una scossa di terremoto impazzita, che per un volere superiore a noi tutti, aveva optato per imbattersi non su di me, probabile vittima sacrificale, bensì su di un immobile poco distante.
L’allarme di una macchina vicina mi fece rinsavire così da non farmi perdere quel magico momento.
Il tuono, mi dissero più tardi, ebbe un suono cosi acerbo da lasciare l’amaro in bocca.
Io, sola e spaventata, tumultuosa ed eccitata non sentii nulla se non il rimbombante battere del mio cuore in un petto, così gonfio di emozioni da esplodere di li a poco.
Ignara avevo assistito a qualcosa che non molti hanno poi la fortuna di raccontare. Avevo immortalato con uno scatto un sogno impossibile da realizzare. Un secondo di vita che sarebbe dovuto essere un secondo di morte.
Quella saetta aveva frantumato ben più di un immobile sconosciuto. Era riuscita a frantumare la mia anima in particelle di elettricità permanente facendomi comprendere, molti anni più tardi di essere stata io la prescelta.
Sconvolta di tutto questo irreale trambusto non potei fare altro che tornare a dormire come se nulla fosse successo, come se nessuno avesse mai assistito a un qualcosa di così inspiegabile da non essere mai realmente accaduto.
Cosa accadde realmente quella notte mai nessuno lo seppe.
Ancora oggi si narra la vicenda di una notte senza fine dove una donna, divenuta la prescelta, assistette sbigottita ad un evento straordinario.
Si dice che abbia una prova, tenuta nascosta in uno scrigno d’altri tempi, di quello che ormai tutti conoscono come “l’ultimo temporale”.

Barbara Dylan

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mercoledì 27 giugno 2007

ControHabitués

Ovvero: Ma dove cavolo siamo finiti?

Troppo tardi! Ormai hanno superato le colonne d’Ercole e il conto alla rovescia per la fine del mondo è cominciato.
È impossibile non riconoscerli, non c’entrano nulla con tutto il resto e si guardano in giro, mescolando stupore e paura. Sorridono al pianista, che sorride di rimando, pensando “eccone altri due”. Gli si legge negli occhi la voglia di scappare ma gli sguardi ormai sono tutti puntati su di loro, in attesa di mosse false. L’uscita di sicurezza è troppo lontana. Ormai sono certi solo di una cosa, questa esperienza non la dimenticheranno facilmente.


Tipologie:

Turisti avventati.

Se parlano inglese, la ragazza ai tavoli, ribatte con un secco “NO spik inglischh” e guida il loro dito sulla lista fino all’ordinazione desiderata.
Se non parlano inglese, comunque ci provano e, forse per tenerezza, ci prova anche la ragazza ai tavoli. Risultato, nessuno capisce e si ritorna al dito sulla lista.
Abbigliamento Primavera Estate, LEI, vestito a fiori, sandali bassi senza calze, borsetta, LUI, Pantaloncini multi tasca color cachi, camiciola mezze maniche a quadretti, gilet “Camel Trophy” in pandant con i pantaloncini, sandali con calzini, marsupio e borsello.
Abbbigliamento Autunno Inverno, LEI, vestito a fiori, sandali bassi senza calze, borsetta e cappottino. LUI, calzamaglia, pantaloni di fustagno, scarponcini da trekking, camicia quadrettata a maniche lunghe, pile, giacca in Goretex, racchette da neve e piccozza, lasciati all’ingresso per ragioni di scurezza e ordine pubblico.
Drink: Birra, meglio non rischiare.
Metodi di pagamento:
Bigliettone da 100 Dollari –Mi spiace prendiamo solo gli EURI-
Bigliettone da 100 EURI –Non avrebbe qualcosa di più piccolo, sa è già il secondo che me lo fa cambiare.-
Carta di credito, -Grazie, gliela clono e torno.-



L’insopportabile.

Entra già ubriaco marcio, si lancia urlante nella mischia sperando di passare sopra la testa della gente come nei concerti rock. Si ferma un attimo prima di sfracellarsi al suolo. Balla a casaccio. Bacco lo ha convinto della sua irresistibile simpatia e cerca di attirare l’attenzione che tutti gli negano sperando, segretamente, di vederlo evaporare in una scoreggia. Al primo tentativo approcciare una donna scattano in piedi tutti i piacioni decani del posto, pronti a re-inventargli i connotati a mani nude.
Quello è il segnale, il proprietario, grande esperto di situazioni al limite, riunioni sediziose e risse, interviene invitandolo fuori a fumare una sigaretta, oltrepassata la porta gli viene cortesemente fatto capire a calci nel sedere che non è MAI stata persona gradita.
Abbigliamento: Pantaloni bianchi e canottiera, anche nei giorni della merla.
Drink: Non fa a tempo a ordinare.



Famigliola in terapia di gruppo.

Papà, mamma e figlia sull’orlo di una crisi di nervi.
La coppia genitoriale simula una serenità degna di un manuale di economia domestica delgi anni 50
Sorriso tirato della mamma in abbinamento a gambe accavallate, braccia conserte e un virgin daiquiri alla banana (carenza di potassio?).
Nuvoletta: “questa è stata l’idea più idiota che ha avuto dopo quella di regalarmi la macchina per fare il pane a Natale.”
Sorriso tirato di lui, tradito dal piede che batte fuori tempo e da un boccale di whiskey che stenderebbe anche Dean Martin.
Nuvoletta: “queste due stronze mi porteranno alla tomba e poi faranno fuori tutti i miei soldi, so io cosa fare, me li brucio tutti su eBay a comprare trenini!”
La figlia invece manifesta disgusto puro, sia per la cocacola che è costretta a bere senza il regolamentare rhum sia per il patetico tentativo di ricucitura familiare dei suoi “vecchi”
Nuvoletta: “Cheppalle, però mi farei il pianista!”



Famigliola extended

Aggiungeteci, una manciata di cugini, uno zio e la nonnetta che compie gli anni e si scatena al suono di Disco Inferno mentre il resto del locale recita un silenzioso rosario per le sue coronarie.
Il proprietario telefona al numero verde dell’assicurazione per alzare il massimale in caso di morti accidentali.



Sbarbati periferici.

Una serata diversa all’insegna della vera trasgressione.
Familiarizzano subito con il pianista e con l’alcol. Nonostante la giovane età si comportano uniformandosi alle leggi non scritte dei pianobar. Per loro il tuffo nel passato assomiglia più ad viaggio fantasy tipo Signore degli anelli di Tolkien, in un mondo fuori dal tempo e popolato da strani eroi e buffi personaggi dotati di strani poteri, tipo quello di rimorchiare belle donne e non crollare a terra dopo il secondo Long Drink.
Mezzo di locomozione: Motorino elaborato con marmitta Giannelli.







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giovedì 21 giugno 2007

In difesa delle Donnacce

I personaggi di questo racconto sono frutto di fantasia, ogni rifermento a fatti cose o persone è da ritenersi puramente casuale.

Rimiravo ancora il distintivo con su scritto Ispettore onorario, Avendo vinto il concorso di narrativa poliziesca “Una giornata da sbirro” indetta dal capo della polizia, la tolla, mi spettava di diritto. La mattina era stata una levataccia. Il duro lavoro del poliziotto comincia all’alba. Alle nove una volante era venuta a prelevarmi sotto casa, ma questa volta sarei stato io a fare le domande.
In giro, di pattuglia con Stursky e Hutch, fino a mezzogiorno. Io, sul sedile posteriore, felice come un bimbo su una macchina della polizia. Appena si cresce la prospettiva cambia. Ad ogni modo, col naso incollato al vetro, indicavo possibili crimini sui quali intervenire.
Niente, Calma piatta, Milano non era mai stata cosi poco violenta.
Mezzogiorno, pausa HotDog, imposta da me, loro volevano mangiare n’amatrisciaaana, ma il graduato, anche se solo per un giorno ero io, e poi non eravamo mica in un film di Thomas Millian.
Poi ancora in giro, non so se avessero ordini dall’alto di non farmi cacciare nei guai, o se davvero la città fosse incredibilmente morta.
Milano è famosa per due cose: La moda di per sé, e L’aperitivo, che in fondo, è una cosa che non passa mai di moda. L’aperitivo porta con sé un campionario di varia umanità, centinaia di locali pullulano di persone di ogni tipo, tutti con l’obbiettivo comune di arraffare più cibo possibile dal Buffet. L’aperitivo, quella sera, si era tinto di nero.
Venni scosso dalla mia meditazione sul mio distintivo di latta dal mio temporaneo sottoposto, l’ispettore (vero) Michele Scucimarro.
-Ispettò, il Questò dice che se vuole la bambola può interrogarla lei, e si scusa di non averla fatta sparare al poligono.
La Donna in questione aspettava nella stanza degli interrogatori. L’avevano fermata al Blues Cafè mentre versava una boccettina di liquido non indentificato nel bicchiere del suo accompagnatore, il quale era momentaneamente in bagno.
Se ne stava seduta con le gambe accavallate, il che era molto positivo, perché prima o poi le si sarebbe addormentata una gamba e avrebbe dovuto invertire l’ordine delle cosce. il vestito, nerissimo, era più lungo dietro che davanti e lasciava ampie dosi di sottile lycra in bella vista. Sul viso, un sorriso ammaliatore disegnato col più sfacciato dei rossetti.
Manteneva lo sguardo alto. Il collo, slanciato da un collier di perle più simile ad un vero e proprio collare.
-Come si chiama?-
-Barbara Kunt-
-Professione?
-Assassina.-
-Non sia ridicola, è in guai grossi.-
-Allora scriva poetessa.-
Ho sempre avuto un debole per la poesia.
-Cosa stava facendo al Blues cafè?-
-Stavo bevento un cosmopolitan e cercavo di avvelenare un uomo.-
-Ma insomma, la smetta, il sarcasmo non la aiuterà, quel poveretto è in pericolo di vita.-
L’espressione si tramutò in falsa compassione -Mi si spezza davvero il cuore.-
-Scucy, posso chiamarti Scucy vero? Non ti scoccia? Ma... si sa qualcosa di questo tipo?-
-Ispettò, si sa solo che tiene nu casino sulla costazzurra.-
-Si dice casinò.-
-E, Signorina Kunt, cosa avrebbe fatto di tanto grave questo signore per meritarsi il suo odio?-
-Mi dispiace deluderla, ma l’odio non c’entra, sono questioni di lavoro, il signore ha la brutta abitudine di non pagare le fatture.-
Iniziavo a non capirci più un cazzo, forse era per quello che facevo lo scrittore e non il poliziotto, ero solo sicuro di una cosa, quella donna era troppo bella per essere colpevole. Forse pericolosa, ma non colpevole. Ormai mancava solo un quarto d’ora allo scadere della mia breve, puntiforme carriera di piedipiatti, il poco potere che avevo, lo avrei usato tutto.
Iniziai ad elencare gli oggetti trovati addosso alla sospettata, e che ora riposavano sul tavolo.
-Un cellulare fucsia, un rossetto “Rouge di Dior” Una calibro 22 col calcio di madreperla, carina gliel’hanno data in omaggio insieme al collier?-
-Si. -Fece vezzosa -e agli orecchini.-
-Non vorrà farmi credere che riusciva a farcela stare in quella specie di portamonete che chiama borsa.-
-No infatti la tenevo qui.- E si scostò il vestito mettendo in mostra una coscia tornita decorata da una fondina attaccata al reggicalze.
-Non pensavo esistessero davvero.-
Mi guardò divertita trattenendo una sigaretta fresca di pacchetto tra le dita lunghe e smaltate di rosso. L’ispettore, quello vero, sudava come una bottiglietta di Ceres in pieno agosto.
Io no, avevo quasi freddo.
-Sta aspettando che si accenda per combustione spontanea?-
-Se qualcuno non mi avesse sequestrato anche l’accendino...- Fulminò Scucy con so sguardo.
Guardai la lista che avevo in mano
-Già... Un dupont in lacca nera e argento- Scucia Scucy, cioè scusa, ma che pericolo rappresenta un accendino?-
-Potrebbe dar fuoco a qualcuno-
Lo guardai stranito, -Certo, potrebbe anche dare fuoco a te.-
Mi avvicinai a lei vestendo i panni dello sbirro buono, quello dello sbirro scemo erano un pret a porter confezionato su misura per Scucimarro
-Ne ho anch’io uno, sa?- Lo estrassi dalla tasca, l’inconfondibile “CLINK”, precedette di poco la fiammella.
-Fuma anche lei?-
-Solo la pipa, ma non in pubblico.-
Continuai ad elencare.
-Un rasoio di Solingen con manico di tartaruga, le tartarughe sono fuori legge lo sa?-
-Per cosa? Difetto di velocità? E poi era di mio nonno.-
-Cosa, la tartaruga o il rasoio?-
Risi solo io.
-Una boccettina di liquido incolore, cosa è?
-Cianuro.-
-Allora vuole collaborare? Oppure...-
-L’assaggi!-
Stappai il boccettino, Odorava di mandorle amare. La guardai fissa negli occhi per scorgere un pò di paura, nulla.
-Allora Dottò, è veleno?- -No Scucy, solo essenza di mandorla, sa signorina la torta delizia è la preferita da mio cugino.-
-Se me lo presenta gliene preparo una.-
In quel mentre entrò un agente, informandoci che la potenziale vittima se l’era cavata con un brutto spavento e dieci giorni di prognosi. La Kunt schioccò le dita con disappunto.
-Beh Scucy, mancano cinque minuti alla mia uscita di scena, direi che non abbiamo elementi per trattenere la signora, firmo io il suo rilascio, e restituiscile pure tutte le sue carabattole, boccettine di mandorle comprese.-
-Ma Dottò, e...e La pistola e lu rasoiu e e...-
-E... E... Primo non sono dottore e poi è robetta, garantisco io.-
Firmai e riconsegnai il distintivo. Mi rimanevano solo le chiacchiere. Aiutai Miss Kunt ad alzarsi, coi tacchi mi sovrastava di almeno dieci centimetri. Sorrise. La scortai fuori erano le 23:30 di venerdì.
-Perchè non viene a bere qualcosa?-
-Mah, non saprei, dove?-
-Conosce il Pelouche, è un pianobar.-
-Certo, sono amica del proprietario.-
-Allora andiamo.-
Appena entrati Alex il pianista urlò il mio nome al microfono come era uso fare, riuscimmo a sederci in un punto appartato nonostante la bolgia del Friday Night.
-Cosa prende?-
-Un Cuba libre con Havana 7.-
-Per me un Gin Tonic con Tanqueray, grazie.-
La guardai negli occhi chiedendomi se avessi agito bene, pagai le consumazioni e mi alzai.
-Dove va?-
La guardai con un goccetto di sfida.
-Al bagno.-

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martedì 12 giugno 2007

Non dire tacco se non ce l'hai nel sacco


Ma tu indossi solo scarpe con la fibbia?
L’osservazione arrivava da una ragazza piccoletta con un sorriso scimmiesco, uno di quelli dove il bilancio tra denti e gengive, pende drammaticamente a favore delle gengive.
-Si, che osservatrice. É perchè non so fare i nodi con le stringhe,
ricordo che in prima elementare mi rimandarono per quel motivo. Fu un estate
terribile e memorabile al tempo stesso, la passai a Milano andando a ripetizioni di nodi da un marinaio.
-Ma a milano non c’è il mare.-
-Infatti era solo un mezzo marinaio, un marinaio di terra, come le tartarughe, o le hostess se preferisci. Viveva in un barcone sui navigli e pescava salmoni sulla darsena.
-Salmoni nel Naviglio?-
-Si, sono i salmoni più grassi del mondo, perchè nella darsena non c’è nessuna corrente da risalire, un pò come il fois gras per le oche. Una vera prelibatezza. Sono dei salmoni assolutamente pigri, vivono anche loro controcorrente, ma solo in senso metaforico.
-Comunque sono delle belle scarpe, e le mie ti piacciono?-
Alzo la gamba ad angolo retto e io iniziai a tremare.
-Scusa, ma dove è il tacco-
-Non c’è, sono “ballerine”-
Questo era troppo, aveva anche osato pronunciare il nome infame.
L’abominio della femminilità, non ho mai capito cosa spinga una donna a mortificare cosi le sue forme, neanche fossimo in un regime totalitario.
Quelle erano color turchese, con un sottile fiocchetto sulla punta.
-Allora ti piacciono?-
-No, sono orribili-
-Ma... Non sono cose belle da dire a una signora-
-Ma tu non sei una signora, se ne accorgerebbe anche Loredana Bertè-
Sorrise, ancora tutte quelle gengive, mi venne voglia di lanciarle una nocciolina.
-Le scarpe col tacco sono scomode, e fanno venire le caviglie gonfie, cosa c’è di tanto speciale in una scarpa col tacco.
La guardai con commiserazione mista a un’unghia di tenerezza.
-Se invito una bella donna sul mio divano, voglio poterle sfilare la sua bella decoltè riempirla di Champagne, ed eventualmente sbottare in un... Ma questo Champagne sa di tacco, dentro a scarpe come le tue non ci berrei neanche il passato di verdura, che peraltro già mi fa schifo.
Esasperata chiamò la sua amica, che invece si destreggiava su due stiletti stilosi. Si scambiarono le calzature e la scimmia conquistò la posizione eretta.
Iniziai a riconsiderare le gengive.
-Ora come stò?-
-Ci voleva tanto?-
Le offrii il braccio e si illuminò, la scambiò per una galanteria, in realtà era una sfida, la aspettava un giro di ronda sul perfido ciotolato.
Sui tacchi bisogna anche saperci camminare.

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giovedì 31 maggio 2007

Non sparate sul Pianista

Non so chi abbia inventato il detto “il mattino ha l’oro in bocca”. Personalmente diffido di chi ha la tendenza a mettersi metalli pregiati sotto i denti. Di solito sono filibustieri o truffatori, che lo fanno per comprovarne l’autenticità. Erano le tre di notte, che poi sono anche le tre del mattino ed io, ero in piedi, si fa per dire, solo in virtù del fatto che me ne sarei andato a letto di li a poco. Alex, il pianista stava staccando.In tutti i sensi. Staccava cavi, staccava sequencer MIDI, Avrebbe gradito che gli staccassero anche l’assegno del suo compenso ma non era giorno di paga. Stava riponendo tutto il corredo di tecnoputtanate che si portava dietro per il suo show, compresa la lampada strobo de poche con cui aggiungeva un tocco psichedelico alle serate SettantaOttanta del Pelouche. Pianista e showman. Insomma, Un Pianoman. Nel Far West, la vera vitaccia, era quella dei pianisti di saloon, costretti da pianoforti senza coda, a dare le spalle a tutto il pubblico. Riuscivano a mantenere un sorriso alla Groucho Marx, con tanto di occhi sbarrati e sigaro, anche quando gli animi, scaldati da ampie dosi di whiskey e donne di malaffare, cominciavano a manifestare il loro disagio a colpi di pistola. Vi siete mai chiesti se sono più veloci le pallottole o le dita di un pianista? Quelli che l’hanno scoperto non sono più qui a raccontarlo. Ai tempi, o eri un pistolero e ti occupavi di vacche, (In tutti i sensi) o eri un pistola qualunque e lavoravi in un saloon. Dietro il bancone, dietro il pianoforte o nelle camere al piano di sopra, ma dovevi depilarti le gambe. Al bancone, ci si può sempre abbassare a cercare qualcosa fischiettando, mentre in aria fischiano i proiettili. In una camera, hai a che fare con un diverso genere di pistole che, male che vada, ti sparano in un occhio. Ma incollato a un piano, dove vai? Preghi e continui a cantare “Oh my darling Clementine”. Non puoi neanche incrociare le dita, altrimenti i diesis e i bemolle vanno a farsi benedire. Un mestiere da veri duri. Ai giorni nostri sarebbe come cantare bendati “oh mia bela madunina” nel quartiere scampia di Napoli durante un regolamento di conti della camorra. In un pianobar come il Pelouche, moderno saloon alla moda, il ruolo del pianista non aveva cessato di avere la sua dose di rischi. Alex era un metro e novanta di corpulenta musicalità, un monumento alla nobile arte dell’intrattenimento. Un gigante buono, che quando non suonava per lavoro, giocava a basket per diletto. La sua caratteristica? far sentire speciale il suo pubblico. Anche la più perfetta sconosciuta che metteva per la prima volta il suo tacco a spillo in quel buco infernale, diventava una protagonista. Merito delle sue battute, dei suoi flirt da palcoscenico, del suo charme da pirata gentiluomo. Quando suonava, però, aveva la spalle al muro, seduto in una nicchia che più che un palco sembrava un altare per sacrifici umani. Non il suo, si spera, perchè se avesse avuto un malore, i soccorsi, avrebbero fatto prima a demolire la parete che a estrarlo dal suo posto di combattimento. Almeno da li fronteggiava tutto e tutti e se avessero voluto sparargli avrebbero dovuto guardarlo negli occhi. Ma nei pianobar di Brera, le armi sono caricate a salve, nel senso di “salve, come sta? Posso offrirle un cubalibre con l’Avana7?” e al massimo si sparano balle, grosse finchè volete, ma che poi rotolano via a fine serata.
Tutta l’attrezzatura aveva trovato posto nelle rispettive custodie e io, ultimo ma non ultimo, mi stavo infilando la giacca per uscire.
“Peppo, se mi aspetti, esco anche io”
“ma certo, perchè no?”
“E andiamoooo”.

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sabato 26 maggio 2007

I colori del piano bar


Una volta eravamo solo in bianco e nero.
Nero il grembiule e bianco il colletto,
nera la lavagna e bianco il gesso,
nero l’inchiostro e bianco il foglio.
Oggi siamo fatti di colori.
Colorate le penne dalle mille profumazioni,
abiti dalle fantasie più stravaganti,
policromia nello stile di vita e nel pensiero.

Nel piano bar, presente e passato si uniscono,
le diverse generazioni si incontrano,
l’assenza e l’esaltazione di cromia si confondono.
E’ come gustarsi un film che proietta
Burt Lancaster che esce dal tubo catodico per
invitare ad un ballo una bellissima Michelle Hunziker,
Katharine Hepburn che improvvisa balletti con
un giovane Brad Pitt ancora bagnato dai cristalli liquidi.

L’ambiente è accogliente, ci si sente gli invitati ad una festa
organizzata sulla terrazza di una splendida villa che si trova
lontano da tutto e da tutti,
Fuori da ogni tempo.

Si aprono le danze,
le luci sono soffuse per non permettere di capire
a quale generazione si appartiene.
SIAMO TUTTI DELLO STESSO COLORE.
I cocktail vengono serviti in bicchieri speciali solo per gli habituès,
il proprietario di casa intrattiene gli ospiti raccontando le avventure del passato,
tra la folla si distinguono anche un pittore, un poeta, un mimo…

La mia attenzione, però, si posa su una coppia che si sussurra qualcosa all’orecchio,
chissà quali parole hanno dipinto il sorriso sui loro volti?
Ho letto il labiale, consapevole di commettere qualcosa di scorretto perchè
ho rubato un loro attimo di felicità, mi sono appropriata di un loro istante,
ho ascoltato parole che non erano rivolte a me:
“….non sappiamo tutto quello che ci aspetta al di là di ogni azione…”

Nulla di eccezionale, mi sono detta, banale verità alla portata di una giovane donna,
verità triviale che prende posto nell’infinita lista di quelle cose che tolgono il sonno,
verità di tutti e uguale per tutti.
L’unica cosa che le ho visto fare è stato passare la mano tra i capelli di lui,
chissà quali conseguenze può mai portare una simile azione?
Ma dopotutto non sono fatti che mi riguardano…
E poi si sa che ad ogni festa i veri invitati si chiamano Alcol e Inibizione,
e sono loro a condurre le danze,
fanno credere che quello che accade sarà la verità di sempre,
fanno dimenticare regole e pregiudizi,
permettono alle labbra di pronunciare non solo le parole che ci convengono
ma anche quelle che tutt’a un tratto, senza essere state chiamate,
si presentano sulla rima boccale.
E’ anche vero che l’alcol non ha mai indotto nessuno a fare qualcosa che davvero non volesse fare,
semplicemente permette alle persone di fare ciò che hanno sempre desiderato e sempre represso. Libertà, poi, di ciascuno, di nascondersi dietro qualunque scusa…
Quella strana coppia, bianca, nera, coloratissima,
si stava gustando tutti e sei i cinque sensi….ed erano invidiabili!!

Ogni secondo che passa è come una porta che si apre
per far entrare ciò che ancora non è successo,
quello a cui noi diamo il nome di futuro.

Il futuro non è più quello di una volta……ma chissà di che colore sarà?


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mercoledì 23 maggio 2007

Controproducente contropelo


L’uomo, per definirsi tale, non può prescindere da una perfetta rasatura.
l’umanità si distingue dal regno animale, notoriamente peloso,
per l’uso della parola e del rasoio.
Per quanto umano possa essere lo sguardo di un cane, il migliore amico dell’uomo,
(il diamante è quello delle donne, e poi parlano di parità).
non avrà mai la zampa abbastanza ferma per farsi la barba, a meno che non sia Faccia di cane, il protagonista di una nota canzone dei New Trolls.
L’evoluzione dei rasoi ha subito una preoccupante accelerazione, dalla singola lametta siamo già arrivati a cinque + 1 Sembra l’invito a un party.
Io ero rimasto che, la prima lama sollevava il pelo e la seconda lo tagliava, e le altre tre?
E la +1?
Lo ammetto sono arrivato anche io a usarne fino a tre di lame, senza però smettere di domandarmi cosa potesse fare la terza incomoda.
Magari tagliarmi.

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Indispettita dal fatto che le altre due si erano prese tutto il merito.
Usarne cinque + 1 mi creerebbe troppa ansia.
Quindi, ho deciso di tornare indietro nel tempo, comprando un rasoio a mano libera, da barbiere.
Bellissimo, di acciaio di Solingen, tagliente cittadina della North Rhine-Westphalia, Germania.
Una lama è sempre meglio di tre, figuriamoci di cinque, figuriamoci di +1.
Una lama è sempre meglio di Un lama, che a vedere certi esperimenti di storia della rasatura, ti sputerebbe in un occhio senza esitare.
Ma una lama come quella di Solingen non verrebbe mai usata dal Dalai Lama, contrario alla violenza e alle armi, bianche in questo caso, e la cui barba cade spontaneamente grazie alla meditazione profonda.
Con un rasoio simile, usare una banale bomboletta di schiuma sarebbe stato una bestemmia, quindi, Pennello, sapone da barba e via, colpetti brevi e decisi di acciaio sulla mia faccia canticchiando “siamo, solingen, nell’immenso vuoto che c’è...”
Il vuoto della mia barba, che non c’era più, riempito da... Sangue. Oddio sangue, va da via el...
Una matita emostatica non sarebbe mai bastata, ci sarebbe voluta una cartoleria.
Scarface aveva preso il posto di Faccia di cane.
Dopo essermi ripreso dalla strage dei peli innocenti guardai con rassegnazione il vecchio ma sempre attuale rasoio a tre lame, e sia! Ma da li, o Dalai, non mi sarei più mosso.

martedì 15 maggio 2007

Suonala ancora Sam!


Il bancone è l’ultima spiaggia degli sbevazzoni.
Sbevazzoni motivati, s’intende.
Quando ci arrivi hai molte cose alle spalle, in primis l’intero locale,
di fronte a te l’unico amico, il barman, un vero disaster manager, ti riempie il bicchiere senza fare domande, e asciuga le tue lacrime, dal bancone appunto, che essendo di palissandro pregiato si imbarca in un attimo.
Se sei seduto li e non stai consumando brioche e cappuccino, vuol dire che qualcuno non c’è più.
Qualcuno che beveva caffè d’orzo in tazza grande alla mattina e cosmopolitan a mezzanotte, in mezzo solo un’insalatina.
Non c’è più ma non è che se ne sia andata per sempre da questa valle di lacrime di coccodrillo,
è scappata con un altro, uno più ricco, un prete o il tuo ex migliore amico.
Lei se ne è andata e l’unica cosa che riesci a guardare negli occhi sono i cubetti di ghiaccio nel tuo bicchiere vuoto (barman! Un altro!).
Se poi ti giri verso il tuo vicino di sgabello e con occhi assenti gli dici “suonala ancora Sam”
Non ti preoccupare, la fine è vicina anche per te.



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mercoledì 9 maggio 2007

Fumo Blu

Da quando è passata la legge antifumo nei locali pubblici, a Milano si respira meglio in un Night alla moda che alla fermata del Tram. Fuori ti uccidono le polveri sottili, dentro i superalcolici, ma vuoi mettere?Almeno te ne accorgi e in più sei tu a decidere del tuo destino. Una specie di eutanasia on the rocks. Al Pelouche, quel venerdì Alan, il proprietario, era riuscito, complice una fatele distrazione del PIANOMAN, ad impossessarsi del microfono senza fili, e aveva lanciato la sua personale playlist anni sessanta, cantandola a squarciagola. Qualcuno la gola gliela avrebbe squarciata volentieri, visto che ogni fine settimana era la stessa storia, le stesse canzoni, gli stessi commenti del cantante: “chissà se qualcuno si ricorda le parole di questa...” E chi se le scorda?!? Le avevano imparate a memoria persino le casse dell’impianto, che le avrebbero potute cantare da sole nel caso di una laringite fulminante. Tanto improvvisa quanto auguratagli da tutti. Il locale si era svuotato in un attimo, non che ci voglia molto, è già un buco. Tutti fuori ad accendersi reciprocamente la sigaretta del condannato alla vita, quella notturna. Perchè di giorno qualcuno lavora e mi domando come faccia. Di giorno, a mezzogiorno, che per gli uffici è l’una, nei bar servono panini, insalata e acqua minerale. Le noccioline te le devi portare da casa. I baristi le nascondono, senso di colpa da aperitivo, ma soffrono e si vede. All’ora di pranzo viene spillata solo virtù, a beneficio di possibili capoufficio e supervisori, che da un momento all’altro possono fare una comparsata in “Raggiungi un sottoposto a tavola”. Quindi mentre Alan torturava per l’ennesima volta “Tutto il resto è noia” di Franco Califano raggiunsi Tabacco fuori dalla porta con Bacco in una mano e una Venere nell’altra. Io non fumo, o meglio fumo la pipa, ma non in pubblico, sembrerei Bearzot, ma guardare questi gentiluomini fumare, viene quasi voglia anche a me. Sembra che fumino da sempre, da quando erano nella culla, con la bionda tra le dita , gesticolano, indicano, e il fumo sembra danzare una danza del ventre in dissolvenza. Ma tra tutti questi gentlemen, ne spiccava uno più degli altri. Riccioli imbiancati dall’età, baffo sottile e l’irriverenza di un bambino di otto anni. Se gli altri avevano la giacca, lui aveva la camicia coi gemelli. Se qualcuno gli parlava serio, di qualcosa, lui, serissimo, lo prendeva per il culo senza che nemmeno se ne accorgesse, facendolo sentire pure compreso. Quando si accese anche lui la sigaretta, non mi deluse. Tirata fuori da un lucidissimo portasigarette d’argento la picchiettò sul filtro (non ho mai capito a cosa serve ma è fantastico) e se la portò alla bocca, ma prima di accenderla l’accese ad una bella signora in cerca di fuoco, accanto a lui. Se fosse passata di li in quel momento una di quelle vecchie rompicoglioni che d’estate al mare, quando ero piccolo passavano davanti al mio ombrellone chiedendomi cosa avrei voluto fare da grande, col ditino, avrei indicato lui. Nessuno sapeva il suo nome, era conosciuto solo come Mr. P, un inarrivabile uomo di stile. Nel frattempo Alan, forse soppresso da Alex il pianista, o forse finalmente e definitivamente, si spera, afono, era uscito anche lui dal locale a fumarsi una sigaretta. L’esodo inverso gli regalò un’impagabile espressione tra lo stupore e l’ictus fulminante.



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venerdì 4 maggio 2007

Gli Uomini vengono da Marte... I Piacioni, da Mercurio

Eh si, questo, il dott. John Gray non lo aveva considerato. Troppo occupato a consumare inchiostro e ad arricchirsi sulle relazioni tra Marte e Venere, non si è accorto di una variabile impazzita: Mercurio. Anni luce fa i vertici dei due pianeti spinti da motivazioni banali come la SOLITUDINE, decisero Di tentare la convivenza su di un pianeta comune. Inutile che vi stia a dire come vanno a finire i tentativi di convivenza. Il perchè sia stata scelta la terra per questo singolare esperimento tra extraterrestri affonda nella più bieca e consumata retorica. Essendo praticamente a metà strada tra i due pianeti le domande spontanee non possono che essere state le solite: Casa mia? Casa tua? Motel! Ecco, la terra, altro non è che il Motel del sistema solare. Mercurio invece è sempre stato un po’ come la Svizzera, benestante e defilato. Così vicino al sole da garantire ai suoi abitanti una perenne ed uniforme abbronzatura e così vicino a Venere da maturare una conoscenza del mondo femminile così profonda e che i marziani possono raggiungere solamente diventando GAY. Inoltre respirano ARGENTO VIVO da quando sono nati Contrariamente a quanto si possa pensare gli abitanti di Mercurio non si chiamano Mercuriali (sebbene gli unguenti mercuriali fossero anticamente usati per curare la Sifilide, malattia VENEREA). Questi abbronzatissimi del cosmo, prendono il nome di PIACIONI e sono arrivati sulla terra dopo le insistenti richieste di intervento delle alte sfere di Venere, le cui colonie terrestri iniziavano ad annoiarsi dei marziani, sempre dediti agli amici, al calcio e a dormire sul divano il venerdì sera. Non so se rendo l’idea... é stato come se la Svizzera avesse deciso di entrare in guerra, PAZZESCO. Ma l’amicizia che legava i due pianeti non lasciava scelta. Cosi come SUPERMAN su Kripton sarebbe stato solo un bel ragazzone, anche le capacità dei Piacioni sulla terra aumentano esponenzialmente. Dotati di irresistibile simpatia e sfacciataggine, ballerini a costo del ridicolo, seduti, ma solo con un bicchiere in mano. Sbruffoni, arroganti e antipatici al punto giusto. In una parola, INDOMABILI. Ma l’atmosfera terrestre pur regalando loro dei superpoteri, li espone a rischi notevoli. Se il Piacione non mantiene in forma il suo scudo di energia con regolari puntate in Nightclub e Pianobar, questo rischia di assottigliarsi e infragilirsi. Cene con altre COPPIE di amici e visite domenicali all’IKEA in compagnia di Venusiane particolarmente spregiudicate, sono da considerarsi pratiche ad ALTO RISCHIO. Le conseguenze sono disastrose, e possono portare verso vere e proprie malattie come il FIDANZAMENTO o peggio, il potenzialmente mortale MATRIMONIO. Il poveretto infatti, inconsapevole del cagionevole stato di salute del suo scudo continua ad approcciare spavaldo, venusiane di ogni genere, senza sapere che, queste, annusata la debolezza nell’aria lo ricondizionano nel giro di pochi mesi, o addirittura settimane in un mansueto cane da riporto. I “No!” che rappresentavano la fonte primaria del suo fascino distaccato, si trasformano in patetici “Si” fino all’irrecuperabile “Si cara” o “Si Amore” (notate la A maiuscola). Le Battute fulminanti, svaniscono dal loro eloquio, la voglia di ballare si trasforma in pigrizia da divano, insomma, si PANTOFOLIZZANO fino a diventare NOIOSI come... ORRORE! Noiosi come un MARZIANO. Quindi, amici Piacioni e amiche Venusiane, Occhio all’ossidazione Terrestre!


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giovedì 3 maggio 2007

Un autentico Piacione

Per chi non mi conoscesse dal vivo e avesse dei dubbi, ci terrei a specificare che non sono io. A dirla tutta non so nemmeno chi sia lui. L'ho pescato inserendo la parola Piacione in YouTube.
Comunque è un grande e la musica di Paolo Conte fa il resto.



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L'uomo che fece l'impresa

La storia d’Italia è costellata di uomini leggendari ed eroi. Uomini con la U maiuscola. Che non devono chiedere mai, e lui non fu da meno. Nel 68’ tutti avevano qualcosa di importante da fare, tutti volevano cambiare il mondo, solo lui, senza nemmeno volerlo, senza “provarci”, ci riuscì. Sdraiato in panciolle a curare la sua perfetta abbronzatura sulle spiagge di Saint Tropez, l’unico pensiero che gli attraversava la mente era se mettere oppure no la cravatta sull’immacolata camicia bianca per andare a ballare la sera. Altro che marciare per la pace, lui ballava. Dove? Ovunque, sui tavoli, sulle sedie ma mai da solo. Il vero inventore della Speed Seduction, lui non ci “provava” lui ci riusciva, perchè a provarci con lui erano le altre, attrici, mature miliardarie, o semplici ma bellissime donne “comuni. Attratte da l’irresistibile simpatia di un sorriso anticonformista, come falene verso un lampione assassino. Sempre pronto a divertirsi, e sopratutto a farle divertire. Contrariamente a fidanzati, e mariti, che in genere preferivano farsi un “pokerino” tra amici e fumo di sigaro e che, certi dei loro chilometrici conti in banca, tronfi delle loro potenti spider, lasciavano le loro fascinose mujeres tra le abili mani di un ballerino e Piacione eccezionale. E venne anche lei, la più desiderata. B come Biondissima, B come Bellissima. Con qualche annetto d’esperienza in più di lui e marito miliardario d’ordinanza. Le teste cominciarono subito a girare, come le rotative dei rotocalchi che seguivano “limpresa” come le roulette di un casinò della costa azzurra. Due mesi che regalarono l’immortalità ad un ragazzo che forse non amava particolarmente i Beatles e i Rolling Stones. Ma che, con la forza della simpatia, riuscì in qualcosa che per molti comuni mortali è ancora un mistero.
Dovrò mica dirvi anche il nome?


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mercoledì 4 aprile 2007

Night

"Night"
- Sergio Caputo -

L'orchestrina si diverte a massacrare
uno standard della dolce Bessy Smith
mentre al quarto margarita
ho capito che alle tre
altri posti dove andare non ce n'è.

E' così che mi ritrovo a divagare
su chimere e aspirazioni da viveur
nell'intrigo della notte
in quest'oasi di lamé
a prescindere dai fatti penso a te.

Parla più forte
ti telefono da un night
ho i nervi un po' in disordine
e il fegato nei guai.
Tiro a stupirti
ma non mi riesce più
a barare son più abile
anche quando vinci tu.

Nel brivido del night
nell'ottica del night
ognuno ha un segreto nel cuore
da non rivelare mai.

Nei limiti del night
nell'etica del night
si diventa didascalici
ma tu non lo sai.

Il cantante non la smette di storpiare
le parole di quel brano di Ives Montand
e che altro posso fare
se non mettermi a fumare...
e godermi il panorama in decoltè.

La cassiera ossigenata mi sorride
non ha niente da invidiare a Fernandel
mi racconta di Parigi
io mi sento habituè
nonostante il suo profumo penso a te.

Parla più forte
ti telefono da un night
di nuovo ho fatto il pieno
ah, non so se capirai.
Sai cosa faccio
io domani vengo lì,
ti rapisco e andiamo al cinema,
che vuoi più di così?

Nel brivido del night
nell'ottica del night
ognuno ha un segreto nel cuore
da non rivelare mai.

Nei limiti del night
nell'etica del night
si diventa didascalici
ma tu non lo sai.

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venerdì 30 marzo 2007

La leonessa in lamè 2^a parte

Mentre me ne stavo li, appollaiato sul “poggiuolo” a guardare dalla mini balconata, mi resi conto di quanto piccolo fosse il locale, un loculo più che un locale, un vero ombelico di mondo con le pareti affrescate di un panorama ultravioletto. Un paesaggio notturno, così rassicurante da sembrare di stare a casa propria. Posto minuscolo, dalle pareti infinite. Un po’ come un pensiero, racchiuso dentro una scatola cranica. Si , si, si! Il cielo in una stanza! Scusate... Gino Paoli, me lo stà urlando nell’orecchio, poi sennò diventa permaloso. La leonessa ruggiva in tutto il suo fascino, lasciando tutte le altre bestie presenti in sala, a bocca aperta. Compreso il sottoscritto. Non avevo mai pensato alla possibilità di una cantante di pianobar, che suonasse anche, oltre a cantare, me le ero sempre immaginate diverse. Vestite di lamè, ok! Anche leonesse, si. Ma, sullo schermo gigante e privato della mia mente, erano sempre mollemente adagiate su di un pianoforte a coda nero, con il martini in una mano e il microfono nell’altra. Mentre il pianista, nero come il pianoforte, ondeggiava sorridente in uno smoking bianco. Bianco come i suoi denti. Invece no, lei era un tutt’uno con lo strumento e con noi, che la ascoltavamo rapiti. Cantando, sorrideva di bianco, anche senza ondeggiare. Anche senza essere nera. Un vero prodigio! 
“Con il nastro rosa” di Lucio Battisti, ha un testo che sembra cristallizzare esattamente il momento in cui ci si innamora. Quello SBAGLIATO. Quello dove QUELQUALCUNO è già con QUALCUNALTRO e ti convinci irremovibilmente che in effetti c’è qualcosa che non va. Di quanto basti poco, frasi sciocche, volgari doppi sensi, e, indipendentemente da come la pensi, ti ritrovi con la cassa sbagliata, a cercare freneticamente lo scontrino nelle tasche sperando che te la cambino e che la cassiera non debba correre a casa a guardare una stupida fiction. “Life isn’t fair” ovvero, la vita, si sa, gioca sporco, e se ne lava le mani, quindi, per quanto sporco sia il gioco, ne esce sempre pulita. Può permettersi i migliori avvocati. Mentre ero li, non ero ne QUEL QUALCUNO e ne QUALCUNALTRO, non ero NESSUNO ma a guardare nella folla non potevo far finta di non vedere la gran confusione di casse e di nastri che regnava. Finì la canzone, finì la ceres, la strada verso casa non era lunga così decisi di uscire. Nel fresco della sera mi resi conto di una cosa, di tornare a casa a mani vuote, senza nessun tipo di cassa sotto braccio. Se non altro, almeno quella sera, non avevo sbagliato ne la mia spesa ne la mia sposa.


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mercoledì 7 marzo 2007

Una bellissima giornata

Sveglia ore 8.30….che bellissima giornata!!!!! Apro la finestra e mi lascio abbracciare dai primi caldi raggi del sole.
Mi lavo, mi vesto, mi trucco in modo delicato, oggi voglio essere luminosa e soprattutto sembrare il più possibile “acqua e sapone” (in realtà la vera arte sta nel truccarsi e non sembrare di esserlo).
Scendo di corsa le scale, niente ascensore. L’energia che sento scorrere nelle vene è una sensazione meravigliosa. Quanto tempo è passato dall’ultima volta che mi sono sentita così euforica…troppo!
Guardo l’orologio che ormai da anni porto al braccio destro…le 9.40…non sono in ritardo, posso concedermi la colazione al solito bar, lettura rapida del giornale mentre bevo un cappuccio chiaro (non tutti i baristi riescono a togliere la tazza nel preciso momento per avere quella quantità giusta di caffé che basta per assaporarne l’aroma, ma che non intacca il bianco del latte).
L’idea di poter essere di nuovo tra le tue braccia, di potermi perdere nel suo sguardo, di poter trascorrere tutto il giorno accanto a te dopo così tanto tempo.
Ricordo l’ultima volta che ci vedemmo, il tempo sembrava essere in sintonia con i nostri stati d’animo, nubi grigie e una pioggerellina fine che rendeva l’atmosfera malinconica.
“Quando ti rivedrò?”
“Perché il destino non ci permette di stare insieme?”
Lì in silenzio, l’uno accanto all’altra, senza fiatare, per paura di scandire col respiro il poco tempo che ci rimaneva. Sono sicura che se solo uno dei due avesse avuto il coraggio di sussurrare “resta con me”, oggi avremmo festeggiato il nostro ennesimo anniversario. Ma la vita ci pone di fronte a bivi che non concedono troppo tempo di riflessione…destra o sinistra? Subito, devi decidere ora!
Le vie di Milano sono trafficate, ma nulla può turbare la mia serenità. Mi diverto ad osservare gli autobus stracolmi di persone, le auto, i taxi…chissà dove sono diretti? Chissà se c’è qualcun’altro felice come me, che si è svegliato con il cuore in gola, o addirittura che non è riuscito a prendere sonno per l’emozione.
Io ti ho sognato in tutti questi anni. Ti ho desiderato, amato di un amore perfetto, illanguidito dalla mancanza fisica, un amore assoluto ed incorruttibile…tu prima di ogni altra cosa!!!
Non mi pare ancora possibile che finalmente tra qualche minuto il battito del mio cuore si confonderà col tuo, non mi pare possibile che alla fine l’amore abbia trionfato, proprio come nei film, quei film che mi hanno fatto compagnia durante le serate più tristi, insieme alla confezione famiglia di kleenex ultra soft.
Semaforo rosso, mi fermo e accendo lo stereo…è la prima cosa che faccio di solito, appena salgo in auto ma stamattina i miei pensieri sono talmente vivi che li sento come fossero incisi su cd.
“…..lo scopriremo solo vivendooooo, chissà chiiiiiissà chi sei….”
Non ci credo, la nostra canzone!!!! E poi nessuno crede alle coincidenze, ma come è possibile?
Lucio Battisti su Radio DeeJay? Non si è mai sentito….eppure l’hanno messo in programmazione proprio oggi, proprio mentre io ho premuto il pulsante on.
Ecco, intravedo la stazione Centrale….ore 10.25, ancora 5 minuti ed il tuo treno sarà fermo al binario 11.
Parcheggio, gratta e sosta….per 10 minuti devo pagare un’ora intera….e poi di corsa verso di te, prendo il cellulare dalla borsa, squilla, vedo il tuo nome lampeggiare…amore mio!!!! Rispondo ma non sento nulla….il telefono continua a suonare….”pronto?”….driiin…driiin….
Driiin…driiiinnnnn…..
Sveglia!!!! Ore 8.30……….chissà se sarà una bellissima giornata…


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domenica 25 febbraio 2007

Habituès

"Ormai era da un pò che li osservavo, erano il vero tessuto connettivo di ogni pianobar
Gli habitués". Sono in grado di capire al volo le situazioni più intricate ed equivoche che si creano all’interno del locale. Se ti hanno visto scambiare effusioni roventi ogni venerdì per due mesi di fila, con la stessa morettona.Appena ti vedono entrare con un altra, basta uno sguardo e loro entrano in modalità clandestinità. Ti salutano con gesti misurati, alzano un sopracciglio, muovono il mignolo della mano con la quale sbevazzano il loro drink preferito, i più radicali fanno finta di non conoscerti nemmeno. Un'indifferenza studiata, da veri professionisti (salvo poi sputtanarti all’orario di chiusura con una gaffe degna di Mike Bongiorno, forse non ti avevano visto davvero). Loro presumono (quindi sanno per certo) che la biondissima che ti porti a braccetto sia qualcuno di totalmente sconosciuto alla mora che ti stava abbarbicata la settimana prima e, dopo averti fatto capire con il loro personalissmo Body Language che hanno capito la situazione, e che sanno che tu sai che loro sanno, si eclissano sprofondando nelle loro sedute, diventano parte integrante dell’arredamento del locale confondendosi con il velluto rosso dei divanetti. Sembrano li da SEMPRE! I proprietari che si susseguono nella gestione li ereditano insieme all’impianto stereo e ai fornitori di superalcolici. Vivono il tempo in una maniera tutta loro, a dirla tutta vivono “fuori dal tempo”. E lo battono con il piede al ritmo dei loro ballabili preferiti, misurandone lo scorrere con tre semplici unità:

la più breve è il: DUE MINUTI

“Cazzo! Era qui DUE MINUTI fa, si vede che l’ha accompagnata a casa.”

oppure

“Ancora DUE MINUTI e facciamo una piccola pausa e poi
torneremo con l’ultima ora del Ppppelouche!”

ma anche

“Se aspetti DUE MINUTI finisce il pezzo, faccio pipì e poi ce
ne andiamo da questo posto di merda.”

l’unità di misura immediatamente superiore al DUE MINUTI è il FINESETTIMANA

“L’altro FINESETTIMANA, Alex non c’era, suonava ad un matrimonio, ha suonato un’altro,
ma era un po’ moscetto, poi aveva uno strano copricapo in testa, sembrava un centrino di pizzo”

L’espressione temporale più ampia invece abbraccia tutta la genealogia dei proprietari del locale,
presenti, passati e a volte futuri.

“Due proprietari fa, le pareti non erano mica decorate e i divanetti erano bianchi e azzurri, poi c’è stato un principio d’incendio e...”

“il Proprietario attuale, Alan, è una vecchia gloria della canzone Italiana, è stato anche a Sanremo, ma ti parlo di trent’anni fà, anche di più”

Si presentano spesso da soli ma hanno la tendenza ad aggregarsi spontaneamente creando piccole comunità dette “Tavoli”

“Dani, per favore, mi porti tre Burbon-GingerAle al tavolo Vip”
“Ehi, voi, si dico a voi la in fondo, tavolo Curva Sud, se avete delle richieste è giunto il momento”

Ma come in tutto, è d’obbligo non generalizzare, c’è Habituè e Habituè. Qui di seguito, una manciata di categorie, giusto per capire:

L’inconsapevole Clown.

di un’età indefinita tra i 55 e i 60 anni, ha un sorriso perenne stampato in viso e il parrucchino più posticcio mai visto prima. Ha un basso coefficiente di penetrazione del locale, cioè si ferma solitamente sulle scale in posizione strategica a due passi dalle tre cose più importanti del posto, il Bar, Il Pianista e l’uscita. Oltre non va, forse per timore di venire coinvolto in balli sfrenati, o semplicemente per paura di perdere gli occhiali dalla montatura rossa stile Ivan Graziani e di non riuscire più a tornare a casa.
Drink preferito: “un bel uiskino senza ghiaccio”

Amici degli amici del proprietario.

Lenti e opulenti, attorniati da bionde “nipoti” dell’est europeo. Atterrano nel locale più o meno a un quarto d’ora dalla chiusura, giusto un attimo dopo che il “Pianoman” ha staccato tutti i microfoni e riposto i suoi ammenicoli tecnologici nelle loro custodie. Al loro ingresso Il proprietario, ingoia la sigaretta e si precipita letteralmente giù dalle scale, prendendo al volo il microfono che gli viene lanciato. Dedica “agli Amici” due o tre dei suoi evergreen con sommo piacere del pianista che si immaginava già a letto tra le sue lenzuola di lino. Drink preferito: Bottiglione di Berlucchi ghiacciato, con coppe a volontà, il tutto, strano a dirsi, rigorosamente pagato all’usicta con buffetto “amicheovle” sulla guancia.

To be continued...


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martedì 20 febbraio 2007

EMOZIONI

Sensuali parole che danzano a ritmo di dolci note,
movimenti e sguardi che seguono il ritmo,
che non vogliono essere capiti
se non dalla persona alle quali sono dedicati.

L’atmosfera è magica,
parole non pronunciate
ma ugualmente intense di sentimento,
desiderio, passione, emozione.

Gli occhi si incrociano e l’intesa è perfetta,
le anime si abbandonano al piacere del momento,
al piacere del sapersi appartenere l’una all’altra,
al piacere che si donano.

L’incanto si fa padrone della realtà,
la realtà si fa padrona della vita,
la vita si fa padrona…..di cosa,
se poi tutto “deve” avere sempre una fine?

La vita è fatta di giorni che si susseguono inesorabili,
incuranti dei desideri,
sordi alle richieste,
incapaci di consolare,
trascorrono e basta!

Non esiste incanto che non sia degno di essere vissuto,
non esiste realtà che non sia degna di essere considerata un dono,
non esiste vita senza giorni…..tristi o felici che siano!

Le emozioni risvegliano i sensi,
la fortuna è quella di viverle!!!

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lunedì 19 febbraio 2007

Sono lurido

Sono lurido.
Mentre sprofondo nella poltrona di alcantara, o velluto, o cotone fine – non c’è abbastanza luce, non sono sicuro… faccio mica il tappezziere – di una cosa sono certo: sono sempre più lurido.
Sono lurido.
O meglio mi sento lurido.
Sono un evaso, un reietto, un lebbroso, un rifiuto umano, non cammino, striscio, mi aggrappo e mi trascino, non parlo, mugolo, grugnisco, sputo e mi nascondo, nessuno mi deve vedere adesso. Nessuno mi deve intercettare. Mi eclisso e sono invisibile… magari!
E invece sono lurido. Lurido e visibile.
E lei?
Lei è lì, immobile. Distesa sul mio letto, semi coperta dalle lenzuola di lino – sarà lino? Sì questo lo so… è lino! No, non faccio il tappezziere, le ho comprate io, due settimane fa… da allora non le ho mai cambiate – sospetto che lei non lo sospetti.
Ecco il segreto! Senza coscienza le cose sembrano migliori, lei immagina tutto candido, bellissimo. Anche me. Come se tutto fosse pulito, immacolato… anzi di più: scintillante!
Se non avessi la coscienza anche per me sarebbe tutto così. Lei poggia la testa sul cuscino che non è più lo scarto della cameretta vecchia di mia sorella, ma è il paffuto ornamento del pied-a-terre del Re Sole.
E poi dorme, sogna, sembra addirittura che sorrida, respira l’aria pura dei sogni, beve alla fonte immacolata della fantasia, se la gode nel suo eden virtuale di incoscienza.
La stronza.
Io l’ammazzo.
Le premo le dita sulla bocca e l’ammazzo. No, più forte. La lego e la scuoio, la strozzo, le sparo, l’annego, le rompo la terza vertebra cervicale.
Magari…
Non ne sarei mai capace.
Ammesso che sapessi trovarla la terza vertebra cervicale...
Sono un codardo.
Però…
Però potrei svegliarla e dirle tutto.
Svuotare il sacco.
Dirglielo finalmente che mi fa schifo che la odio.
Che tutti quei particolari intimi e deliziosi, tutti i segreti di quel corpo che volevo esplorare, frugare e conoscere a qualsiasi costo fino a poche ore fa, ora mi nauseano, me la fanno letteralmente odiare. Perché se non ci fosse la pena di doverla ancora considerare una donna… Una donna che è venuta a letto con me… forse…
Dico io ma chi glielo ha fatto fare?
Sono le quattro, sono passate tre ore dall’orgasmo (croce e delizia di questa serata, unica ricompensa delle precedenti e condanna delle ore successive). Sono passate cinque ore dal rientro a casa, otto dalla cena.
“ti offro su caffè, vieni su da me?”
“Va bene!”
Va bene un cazzo!
Ma dì di no, dì di no! Non lo sai che ti voglio scopare? Non lo sai che sono tutte scuse per portarti a letto? Per fare sesso e poi sentirmi un a merda? Eh? Non lo sai?
Sì. Sì che lo sai. E ci godi. Impazzisci all’idea di essere così bella da condizionarmi a chiedertelo : “ti offro un caffè, vieni su da me”!
Ma era tutto stabilito in partenza. Già. Quando ti vai a fare i capelli, le mani, le unghie dei piedi. Quando ti fai la ceretta e menti a te stessa dicendo che lo fai per te, per sentirti a posto… Non è vero! Era tutto preparato per me. Un tranello, la trappola, il formaggio nella gabbietta, il lazo in tensione, la tagliola pronta a scattare. E l’animale (io!) braccato, istigato, costretto dagli ormoni… A colpi di crema esfoliante, a chiedertelo: “ti offro un caffè…”.
E io che sono lurido. E non mi è neanche mai piaciuto il caffè!
Sono un lurido che non si controlla, che non riesce a trattenersi.
Perché sono un debole, un perdente cronico, una marionetta.
Ma questa volta è l’ultima, lo giuro davanti a dio, un voto solenne, una promessa al Papa, un bacio a Riina! Di ridurmi così non ne posso più.
Meglio distrarsi un attimo.
Cosa c’è sul comodino? Un libro? No, è una risma di fogli A4.
Bianchi.
Ah che bello il bianco.
Una meraviglia, il nulla, la purezza, l’innocenza, la storia ancora da scrivere.
Tutto da decidere.
…Si è mossa.
È sveglia? No dorme profondo . è snella pura e s’incastra alla perfezione con tutto quello che la circonda. E il viso?… Una ninfa. Una ninfa leggiadra incastonata nel bianco delle lenzuola.
Certo una ninfa con un tatuaggio tribale sopra il culo…
Sembra quasi che sorrida.
Ma, sorride davvero! Che fa, sfotte? Anche nella fase rem del sonno se la ride di me. Mi domina, mi umilia, mi sottomette.
Sto delirando.
Mi tocco la fronte sudaticcia, il petto, le spalle.
Non è male toccarsi.
Nel senso del prendere coscienza del proprio corpo. È piacevole, ti dà un senso di… di.. esistenza.
E se mi nascondessi?
Sì, scappo lontano, mi licenzio, prendo le mie cose e chi s’è visto s’è visto. Mi trasferisco in Romania e chi s’è visto s’è visto. Ciao a tutti.
Perché in Romania? Ah già i vampiri.
Ma quale fuga?!? Non ce la farò mai, è troppo da duri. Ci vogliono le palle. E io non ce l’ho. O per lo meno le uso per fare stronzate, come stasera.
E poi non c’è posto abbastanza lontano per scappare da se stessi.
Eppure una soluzione ci deve essere, qualcosa che ci tiri fuori dall’autocommiserazione, una via d’uscita, una soluzione finale, per non cascarci più.
Mi muovo.
Accavallo le gambe (quando si è nudi bisogna farlo con calma, con attenzione).
Mi tocco ancora una coscia. Il ginocchio.
Sì, ci deve essere una via d’uscita, una soluzione finale.
Mi accarezzo con amore il ginocchio, freddo, un po’ sudato.
In fondo è vero.
Non è male toccarsi.

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venerdì 9 febbraio 2007

L' angolo di mondo

Con un colpo d' anca a destra e uno a sinistra mi faccio spazio tra i miei pensieri.
La mia postazione è abbastanza sacrificata, ma, come si suol dire, piuttosto che niente è meglio piuttosto.
E poi ci sono momenti in cui, rannichiato dove sono, sono molto più comodo che laggiù, in strada.
E quindi parto.
La mia vita è un pò questa, un miscuglio di colori e improvvisazioni su un tema che corre da destra a sinistra, ma che si perde nell' aria.
Nel fade in della serata sono l' accompagnatore al tavolo, il maggiordomo gentile che fa accomodare l' ospite convincendolo di essere nel posto giusto al momento giusto.
Poi comincio a diventare uno dei miei tanti io.
La scalata verso la cima non è mai semplice, ma se con te hai lo skipass universale, accedere agli skilift della musica aiuta un pò.
Ecco, adesso sono là, una mano attaccata alla bandiera e l'altra appoggiata al fianco, nell' atto di rimirare il paesaggio.
Ora sono il giardiniere col suo prato, il faro che indica la strada, il reverendo con il suo gregge.
Guardami, ti salvo.
Ascoltami, ti lusingo.
Provami, e tutto ciò che sta fuori rimarrà solo un ronzìo di sottofondo, coperto dai colori della festa in un angolo di mondo che ancora non sono riuscito a decifrare.

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martedì 30 gennaio 2007

La Margherita Sbagliata

Brera, romantica brera, con le sue rose dai petali profumati e freschi di rugiada, ed i suoi flash che immortalano momenti indimenticabili tra gli innamorati e non…

Ma spostandosi di soli pochi metri ci si trova in un altro scorcio interessante di milano: corso Como, dove ogni singolo sampietrino custodisce il segreto del passaggio di amici, di amiche, di studenti che bigiano la scuola, di fidanzati, di amanti e di ex-amati.

L’entusiasmo quella sera, mi teneva per mano, erano passati un paio d’anni dall’ultima volta che avevo calpestato quel cubetto di porfido che si trova proprio di fronte all’ingresso del ristorante che mi attendeva per una cenetta romantica.

Ma prima aperitivo.
Semplicemente per prolungare la serata, per aumentare le occasioni dei giochi di sguardi e di sorrisi.

L’happy hour si sa, non è solo sinonimo di ora felice, ma anche di bar affollati, di gente attratta nei pub dopo l’uscita dal lavoro.
“un negroni, grazie”
“anzi, uno sbagliato”

Non importa che si sappia che il negroni sbagliato sia nato negli anni 50 nel bar Basso di Milano, non importa sapere che la differenza è nei gradi alcolici gentilmente offerti dallo spumante Brut o dal Gin, al bancone si chiede “uno sbagliato” e si va sul sicuro.

Di sicuro, invece, quella fatidica sera è stato il mio imbarazzo nell’essermi sentita fuori dal tempo, la paesana che non conosce i termini più trendy….

Approdata al ristorante, la scelta ricade su una pizza ed è proprio in quell’istante che il destino ha scritto la mia punizione. Scopro che esiste la margherita sbagliata…..semplicemente scritta marghertia! E non ci crederete, ma ho dovuto eliminare il controllo ortografico per riuscire a scriverla!


Ma non è tutto!!!!
Non chiedi semplicemente una marghertia, con un viso intimidito un po’ perché te ne vergogni ad utilizzare un termine che per te, inusuale frequentatore di corso Como, non esisteva fino a due minuti prima che aprissi la lista, la cosa più bella o forse l’apice della vergogna, è stato scoprire che con aria del tutto disinvolta il cameriere dice “ah, una Napoli!”

Ma chi poteva immaginare che in pochi mesi le abitudini e soprattutto il modo di parlare nei salotti di Milano potessero cambiare?

Allora mi sono domandata, perché non tornarci?
Magari per un aperitivo di contrabbando….

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mercoledì 24 gennaio 2007

Una Zebra a pois? no, Una Leonessa in Lamé - 1a Parte -

Il Panorama della musica d’autore, italiana, vanta uno dei più visionari e variegati bestiari Mai visti in campo artistico. Dalla Tigre di Cremona, Per gli amici MINA, a MILVA, la Pantera di Goro, è tutto un susseguirsi di animali, miti e leggende, che farebbero venire gli incubi anche a Stephen King.

Zebre a Pois. Cobra, che non sono serpenti, ma pensieri frequenti (che diventano indecenti, quando vedo te, quando vedo teeeeee). Gente che rinasce cervo a primavera. (non riesco a pensare ad un risveglio più terrificante).

Lei non era da meno...

Come vuole il più consumato dei copioni, ero tornato! Ancora li, ancora una volta, sul luogo del delitto. Ma, eccezionalmente, infrasettimanalmente. Un martedì. Il martedì, per il Pelouche è una serata morta, Altrimenti che delitto sarebbe e, per di più ad un orario da educande, le nove di sera. Era talmente presto che i chiromanti sbadigliavano ancora cenando con brioche e cappuccino.

Questa volta i vetri non erano appannati In trasparenza , un’energica barista era tutta intenta a nettar bicchieri. Serissima. Una cowgirl over 50, coi capelli corti e biondi. Una camisa negra tutta frange e uno sguardo truce e sanguinario. Sembrava la sorella cattiva di Giuliano Gemma.

Si bloccò di colpo, con lo strofinaccio dentro il calice, doveva essersi accorta di me. La fissavo da un po’ e, di sicuro, aveva annusato la mia paura.

Chi esita, si sa, è già morto!

Con un po’ di coraggio mi lanciai verso la porta a vetri e... Prima sorpresa, porta scorrevole. La mia faccia a mo’ di decalcomania sul vetro immacolato. Venne ad aprire lei, con un’espressione esasperata sul viso, La scenetta patetica doveva averla impietosita o, più semplicemente la infastidiva che la mia abbronzatura extravergine le imbrattasse il vetro dell’ingresso. il Vetril costa e lascia gli aloni.

Ma, volete ridere? Le porte, in realtà, erano due, tipo banca, e la seconda, non era scorrevole.
ci sarei cascato un’altra volta. Sarei stato un’ora a cercare di farla scorrere come la prima. Iniziavo a domandarmi se, dietro tutti quei trabocchetti, non ci fosse un velato tentativo di far desistere gli avventori poco motivati. Oppure, quelli troppo ubirachi per consumare ancora qualcosa all’interno che non fosse, la già poca, pazienza della barista.

-ma pensa, non avevo mica capito che scorreva-

-già, già, me ne sono accorta, cosa bevi?-


Il Tanqueray occhieggiava nel suo verde bottiglia dalle mensoline, ma avevo già rischiato troppo per quella sera.

-una bella Birretta alla spina?-

-Solo in botiglia, Corona, Becks, Ceres.-


Le aveva elencate in rigoroso ordine di tasso alcolico crescente, sentii una goccia di sudore freddo solcarmi la fronte li mi giocavo il tutto per tutto.

-Vada per la Ceres-

Un ghigno di approvazione mi fece trarre un sospiro di sollievo. Mi presi la mia birra in bottiglia e sulle prime note de: “con il nastro rosa” di Lucio Battisiti vidi, per la prima volta,
La Leonessa in lamé.

Foto:


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domenica 14 gennaio 2007

Alcolico e Trasgressivo come... un Pelouche

Il primo incontro con la vita notturna milanese mi aveva un pò scosso. Avevo preso uno scivolone, da unbriaco, in fondo, non era una cosa, poi così indecorosa. Ma come ogni caduta, in una vita che si rispetti, ci si rialza, ed io barcollante, ero pronto a riprovarci.

Quindi, “ In the middle of Brera, Again” sempre di venerdì, a stortarsi le caviglie sul romantico ciotolato del Fu quartiere degli artisti. Il ciotolato è bello, decorativo, ma riesce a lussare articolazioni con una facilità spaventosa, ci sono quasi riuscito anche io, indossando delle misere “scarp de tenis” immaginate i voli acrobatici di meravigliosi esemplari di sesso femminile, inerpicati su tacchi a stiletto. Un autentico spettacolo circense.

Quando piove, poi, non vi dico.

Ad ogni modo non pioveva e superato il TRISTEZZA CLUB, dove avevo raschiato il fondo del barile la settimana prima, sono passato al locale successivo. Sotto a chi tocca. L’ingresso: Una porta a vetri, e poi?

Basta.

A parte una disumana quantità di gente all’interno, in un totale delirio. Davano l’idea di divertirsi un casino. I vetri della porta erano appannati come una filovia del della circonvallazione all’ora di punta il tutto con in sottofondo “isn’t she lovely” di Stewie Wonder.

Sembrava un girone Dantesco, condito in salsa anni "80, me ne stavo già innamorando.
Ma tutte le passioni repentine portano dubbi proporzionati all’intensità delle passioni stesse.
Ero pronto a tanta vita in una botta sola? Una scusa qualunque per mollare (temporaneamente) il colpo:

-Troppa gente.-

Come quando, sulla banchina della metropolitana, si rinuncia a salire su di un vagone troppo pieno, e lo si guarda mentre chiude le porte e riparte. Rimasi li un pò a fissarlo, ma a ripartire fui io. Prentendere che fosse il locale a muoversi sarebbe stato troppo.

Mentre mi allontanavo pensai al nome del locale: “Pelouche”. Chissà poi perchè proprio pelouche. L’unica immagine che si formò nella mia testa fu quella di un boa di pelo rosa schocking. Quella sera il pelo lo avevo perso, ma da buon lupo metropolitano avevo la certezza:
Il vizio, che da sempre mi accompagna, la curiosità, mi avrebbe riportato presto in loco per un doveroso sopralluogo.

Foto: bondidwhat


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